Dieci centesimi per una vita degna

Cresce in Bangladesh la repressione del governo nei confronti delle lavoratrici del settore tessile e di chi le rappresenta. Due settimane fa sono stati arrestati dalla polizia due attivisti sindacali. Il loro torto: chiedevano per le lavoratrici del settore dei salari che garantiscano almeno il minimo vitale.

Il 29 luglio scorso il governo del Bangladesh aveva annunciato l'aumento del salario minimo legale a 3 mila taka. Nel contempo aveva però avvertito che non avrebbe tollerato nessun cenno di anarchia nell'industria dell'abbigliamento. È infatti dal mese di gennaio che migliaia di lavoratori e soprattutto lavoratrici protestano nelle strade del Bangladesch contro gli indecenti salari che percepiscono i 2,5 milioni di dipendenti del settore. Rispetto al salario minimo precedente, che si fissava a 1'662 taka, quello proposto dal governo sembra un grande balzo in avanti. Peccato che in Bangladesh il salario minimo vitale sia di oltre il triplo di quanto proposto dal governo di Dacca, cioè 10 mila 750 taka.
Più che comprensibile quindi che le proteste siano proseguite anche dopo l'annuncio del governo. Tanto che questo ha ritenuto di dover intervenire facendo arrestare senza alcuna imputazione specifica, nella notte fra il 12 e il 13 agosto, Kalpona Akter e Babul Akhter, accusati di voler fomentare i disordini di piazza. In precedenza la polizia aveva intimorito e aggredito fisicamente parenti e colleghi dei due sindacalisti per ottenere informazioni sul loro conto, in particolare sul loro nascondiglio. Kalpona Akter è una dirigente del Centro per la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh (Bcws), mentre Babul Akhter dirige la Federazione dei lavoratori dell'industria tessile del Bangladesh. Chiaro l'intento intimidatorio delle autorità, ben più preoccupate di compiacere le fabbriche fornitrici dei più importanti marchi della moda mondiale che di tutelare i diritti di coloro vi lavorano. E che anche con il nuovo salario minimo legale non guadagnerebbero abbastanza per poter condurre una vita dignitosa. Per far questo, dovrebbero lavorare 29 ore al giorno.
Anche in Cambogia i salari dell'industria tessile sono scandalosi. Oggi il salario minimo legale è di 61 dollari al mese. Fino a poco tempo fa era di 50 dollari. Il salario minmo vitale sarebbe però di 93 dollari al mese, ben lontano dunque dall'assicurare una vita dignitosa. Per Ath Thorn, presidente di uno dei maggiori sindacati cambogiani del settore tessile, «è impossibile vivere con 61 dollari al mese. Le lavoratrici e i lavoratori cambogiani si aspettavano una risposta adeguata da parte del governo». Per questo i sindacati cambogiani hanno indetto uno sciopero per il 13 settembre. Che potrebbe essere revocato soltanto se il governo decidesse di tornare al tavolo delle trattative.
Proteste sono cominciate pure in Pakistan: per i sindacati è del tutto insufficiente il nuovo salario minimo legale proposto dal governo, di circa 84 franchi al mese.
Questi casi non sono isolati. È anzi la regola che in Asia e in America latina il salario minimo legale percepito da un'impiegata dell'industria dell'abbigliamento non permetta a lei e alla sua famiglia di vivere dignitosamente. Spesso una donna che lavora a tempo pieno porta a casa meno di due dollari al giorno. Le ore straordinarie sono allora inevitabili, con sei giornate lavorative alla settimana di 12 se non 14 ore. Anche perché il rispetto dei seppur bassissimi salari minimi legali non è affatto una pratica diffusa. Tutto questo obbliga entrambi i genitori a dedicarsi totalmente al lavoro. I bambini rimangono così in campagna, da qualche parente. Vedono la mamma e il papà solo per alcuni giorni all'anno.
I salari bassissimi e la grande quantità di ore straordinarie hanno conseguenze sociali pesantissime: denutrizione, educazione approssimativa dei figli, indebitamento, problemi di salute. L'ambiente malsano di troppe fabbriche tessili e i ritmi di lavoro estenuanti si riflettono in malattie professionali e infortuni. E in questi casi molto spesso chi ne è vittima viene licenziato senza alcun risarcimento né prestazione assicurativa. Quanto ai diritti sindacali, come in Bangladesh anche in molti altri Paesi asiatici e dell'America latina sono poco più che nulli. Chi si impegna per i propri diritti sul posto di lavoro è vittima quasi sempre di pesanti intimidazioni, se non viene licenziato in tronco.
La Dichiarazione di Berna, nell'ambito della Clean Clothes Campaign, ha dunque lanciato lo scorso 2 agosto una campagna nazionale di sensibilizzazione della durata di 10 settimane per l'introduzione nell'industria tessile di tutto il mondo di salari minimi legali che garantiscano il minimo vitale. Sul sito internet della campagna ogni settimana vengono presentati i marchi di importanti firme della moda che non si impegnano a far versare dei salari minimi vitali ai dipendenti delle loro fabbriche fornitrici in Asia e America latina. Da questo sito è possibile scegliere ogni settimana un marchio a cui inviare un video di protesta. Il sito pubblica pure una classifica con i marchi che hanno ricevuto il maggior numero di proteste per i salari indecenti che versano (nei tabellini sotto le classifiche delle prime settimane).
L'obiettivo della campagna della Dichiarazione di Berna è di convincere il maggior numero possibile di marchi internazionali della moda a versare salari che garantiscano il minimo vitale. Non ci vuole molto: basterebbe aumentare il prezzo di una t-shirt di 10 centesimi perché alle donne che la producono sia versato un salario che consente di condurre una vita dignitosa.

Lo scarso peso dei salari

Il costo dei salari non incide che in una misura compresa fra lo 0,5 e il 3 per cento del prezzo finale dei capi d'abigliamento prodotti in Asia o in America latina. Versare un salario corretto alle lavoratrici e ai lavoratori che li realizzano è dunque economicamente possibile. Dato lo scarso peso dei salari sul prodotto finale non è neppure detto che soltanto le marche che propongono gli articoli più cari siano quelle che rispettano i diritti del personale. Anzi, ci sono marche a buon mercato che producono in condizioni eque. Ma al di sotto di un certo limite di prezzo è meglio non scendere: si può stare quasi certi che una t-shirt che costa meno di 10 franchi è stata realizzata da personale ampiamente sfruttato.

Pubblicato il

27.08.2010 03:00
Gianfranco Helbling
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