La mano invisibile

Quanti temi o problemi girano attorno a un’espressione: valore aggiunto!
La cifra d’affari di un’impresa misura ciò che essa ha venduto. Il suo valore aggiunto misura ciò che essa, tenuto conto di quanto ha dovuto spendere prima per acquistare materie prime, prodotti semifiniti e quindi produrre, è riuscita ad aggiungere. In Ticino si sente spesso dire – è un mantra nella sua storia economica – che bisogna avere imprese con elevato valore aggiunto. Avere o insediare cioè imprese che diano una maggior ricchezza tra ciò che vi impieghi o immetti e ciò che ne ricavi. In Ticino si sa però anche che c’è un costo del lavoro inferiore: il livello dei salari è di circa il 20 per cento minore a quello medio svizzero e per niente confrontabile a quello praticato in altre parti della Svizzera anche per posti qualificati e richiesti. Ciò che provoca l’emigrazione di giovani ticinesi formati con notevoli investimenti nel Ticino, verso altri cantoni. È il frontalierato... cantonticinese. Facilitato, per ironia della sorte, da AlpTransit.
A questi problemi di fondo (strutturali, si dirà), sta ora aggiungendosene un altro: l’aumento dei prezzi (da quelli energetici a quelli del grano e quindi del pane o degli spaghetti) dovuto a ciò che sta capitando e quindi il potere d’acquisto. Dietro il quale c’è comunque sempre, e non da adesso, proprio il tema (problema) del valore aggiunto. Non tanto come mantra, ma come rapporto tra lavoratori e capitalisti (chi detiene il capitale), come partecipazione a quel maggior valore o ricchezza creati.


Quest’ultimo è tema (problema) dell’economia in generale, del sistema economico. Lo dimostrano le recenti analisi di un’organizzazione insospettabile come l’Ocse per 15 paesi occidentali. Dagli inizi degli anni 50 sino agli anni 70 la parte dei salari nella distribuzione della torta è rimasta abbastanza stabile, con una media del 69 per cento. È il periodo dei famosi “Trent’anni gloriosi”, segnati da un aumento dei salari reali, parallelamente all’aumento dei guadagni di produttività (e quindi del valore aggiunto). Dall’inizio degli anni 70 sino agli anni 80 la spartizione è persino cresciuta per i lavoratori, raggiungendo un massimo del 74 per cento. Anche perché i salari sono aumentati in un contesto di forte inflazione (crisi del petrolio, tra l’altro), di duri scioperi (’68-’69) e di clima di guerra fredda (la minaccia comunista creava competitività “politica” che induceva i governi a essere socialmente più sensibili e consenzienti).

 

Dagli anni ’80 la svolta o la “rivoluzione neoliberista”. Che il valore aggiunto ha voluto trovarlo reprimendo il costo del lavoro o mettendo in concorrenza i lavoratori stessi, dislocando in paesi con salari infimi e trasferendo sempre più i maggiori profitti o la maggior ricchezza creata verso il capitale, generando le forti diseguaglianze che conosciamo. La spartizione del valore aggiunto o dalla ricchezza creata è quindi andata quasi tutta a beneficio dei capitalisti; la parte dei lavoratori è calata in pochi anni del dieci per cento. Negli anni ’90 è risalita un poco, ma è sempre rimasta inferiore a quella dei “Trent’anni gloriosi”.


Sul valore aggiunto, se c’è quindi un obiettivo cui tendere, è proprio quello di meglio distribuirlo: sia per salvare il potere d’acquisto (che giova a tutta l’economia), sia per far sì che, con imprese non tese prevalentemente a sfruttare il minor costo del lavoro per creare valore o sopravvivere, come spesso avviene nel Ticino, si freni o si eviti anche, parallelamente, l’emigrazione di cervelli, formati a nostre spese, verso altri cantoni.

Pubblicato il 

09.03.22
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