Ecco l'altra faccia di Davos

«Wow, this is typical Switzerland?», chiede un uomo d’affari indiano ad una cameriera mentre guarda affascinato le montagne innevate di Davos. Sì – è la risposta al businessman –, Davos rappresenta un tipico paese alpino della Svizzera. Un villaggio di montagna a forte vocazione turistica che però nel giro di pochi giorni si sta trasformando in una vera e propria fortezza. Formalmente aperta a tutti, ma in realtà chiusa attorno al cuore pulsante del centro congressi che sta ospitando i “grandi del mondo”. Mentre scriviamo questo articolo l’edizione 2006 del Forum economico mondiale non è ancora iniziata. Ma già l’esercito svizzero sta spianando centinaia di metri di filo spinato, gli aerei militari hanno già occupato lo spazio aereo. A terra invece i fornitori stanno riempiendo le cantine di ristoranti, hotel e bar. C’è fermento nell’aria, si vuole accogliere nel migliore dei modi la grande kermesse. Ma dietro a questa facciata pulita e professionale dove tutto è trasparente e fatto alla luce del giorno si nasconde davvero “un’altra Davos”. A raccontarcela è chi vive dietro le quinte dello spettacolo. Parlare in chiave critica – cioè oltre l’entusiasmo del commerciante in odore di affari – del Wef a Davos con i rappresentanti di un qualsiasi tipo di autorità è una vera e propria impresa. Se provate a chiedere ad un politico, ad funzionario pubblico, o ancora ad un albergatore o ancora ad un negoziante se il Wef crea dei problemi, oltre che degli evidenti vantaggi, le bocche restano cucite. Sull’evento che produce per la sola Davos e in 6 giorni una cifra d’affari da 22 milioni di franchi nessuno vuole esporsi. Allora proviamo a farci aiutare dai giornalisti del bisettimanale Davoser Zeitung. «È vero – ci dice uno di loro –, una parte della popolazione vive male questo evento. Ma mi lasci aggiungere una cosa: queste persone non hanno ben capito cosa ha significato e cosa significa il Wef per la nostra città. Non si può borbottare solo perché non si può fare la vita di sempre per pochi giorni. È come quella gente che si lamenta perché il primo d’agosto ci sono i fuochi d’artificio. Eppoi sono solo veramente pochi quelli che sono contrari». Ci può indicare qualcuno? «Hhmm… difficile. Ah sì, c’è quella signora lì. La presidentessa del partito socialista locale [Susanne Würgler Gysi, vedi articolo sotto, ndr] che qualche anno fa era riuscita a raccogliere un po’ di firme ma poi in votazione è stata largamente sconfessata». Se non parla l’oste bisogna provare con i commensali. Nel pomeriggio abbiamo appuntamento con Ute, che lavora da parecchio tempo per una società che fornisce servizio taxi a Davos. «A mio parere il sentimento della popolazione verso il Wef non è poi così positivo – ci dice –. È chiaro che se va dagli albergatori si dicono tutti d’accordo e che va tutto bene. Ma non va bene, per una settimana viviamo sotto assedio. L’esercito è in ogni angolo, i nostri figli si spaventano. È come una piccola guerra. E tutto questo per cosa? Per proteggere della gente piena di soldi che non ha il coraggio di mettere fuori la faccia». Ma nonostante le critiche, Ute ammette che la settimana del Wef l’azienda per cui lavora ingaggia parecchi autisti in più. La maggior parte del guadagno lo fanno con il servizio di spola fra l’aeroporto di Zurigo e Davos. «Non solo – aggiunge –, i ricchi che arrivano qui non vogliono solo lavorare. Cercano anche il divertimento. In questa settimana siamo raggiungibili 24 ore su 24. Ricordo una volta che un cliente ci ha chiamato alle 3 del mattino. Voleva andare ad un night di Zurigo. Arrivato lì ha ricevuto una chiamata e ha cambiato idea. Si è fatto portare indietro facendo tappa a Berna. Poi l’abbiamo riaccompagnato a Davos, erano le 9 del mattino. L’autista era sfinito ma lui ha insistito per farsi portare subito a St. Moritz senza lasciarci fare il cambio d’autista. Con quel solo viaggio ha sborsato circa 4 mila franchi. Cosa vuole fare? I soldi hanno ragione qui da noi». Più tardi, a sera inoltrata, riusciamo ad incontrare una cameriera di uno degli hotel di lusso di Davos. Ci dice di essere un po’ impaurita perché l’ordine del direttore è tassativo: non parlare assolutamente con la stampa e non raccontare nulla di nulla. Se fa l’occhiolino significa che dobbiamo cambiare discorso, ci spiega. «Sono dieci anni che rifaccio i letti e che porto colazioni in camera – dice quasi sottovoce –. Sarebbe davvero interessante raccontare una volta o l’altra questa realtà del Forum. Quella che la gente come noi vive da anni». Ci racconta che la settimana del Forum è da sempre considerata un avvenimento eccezionale e che il minimo errore viene fatto pagare caro dai superiori. Si ricorda di una volta – quando era ancora apprendista – che ha rovesciato il plateau dallo spavento perché chi le ha aperto la porta era completamente svestito. «Per fortuna che non è stato riferito l’accaduto – ci dice –, perché altrimenti ora sarei disoccupata». Ci indica alcuni furgoni posteggiati davanti ad un’entrata secondaria dell’albergo. «Non può immaginare come sono stipate di ogni ben di Dio le nostre celle frigorifere. C’è chi vuole la carne Beef Angus dall’Argentina sennò non la mangia, chi una speciale marmellata dietetica per la colazione. Non so quante scenate ho subìto perché la fetta di pane non era tostata secondo il gradimento del cliente. E non è che puoi mandarlo a quel paese anche se è la terza volta che torni su. Non può immaginare cosa buttiamo via in 6 giorni». Il giorno seguente a Tiefencastel, ad una trentina di chilometri a sud di Davos, una decina di militari assonnati sta proteggendo una postazione con del filo spinato. Ci spiegano che è il primo baluardo a sud contro un’eventuale aggressione via terra. Nonostante il forte dispiegamento dell’esercito – sono 6 mila 500 i militi a disposizione – l’ambiente è rilassato. Per il momento non c’è tensione. La preoccupazione più forte dei militi in corso di ripetizione è il freddo che dovranno patire nei vari turni di guardia. C’è chi si lamenta apertamente di dover proteggere chi ha già le sue guardie del corpo e i soldi per potersi permettere la propria sicurezza. Un milite dice di essere preoccupato più del fucile d’assalto carico del proprio commilitone che dei reali pericoli dovuti ad un eventuale afflusso di manifestanti. «Sa – dice –, alcuni di noi bevono troppo e pensano di essere degli sceriffi». "Ormai ci siamo rassegnati" «Che domande. Ma sì, tutta la popolazione di Davos ama il Wef. Bambini inclusi», ci ha detto provocatoriamente Susanne Würgler Gysi. La presidentessa della locale sezione socialista che aveva tentato nel 2003 di alzare una voce critica nel cuore del paese che ormai è un connubio con il Forum economico mondiale. Nel mese di gennaio aveva raccolto 590 firme che volevano mettere in discussione il “global summit”. Dopo essere stata sconfessata in votazione – e sotto la minaccia da parte della fondazione di Klaus Schwab di fare armi e bagagli – con un chiaro sì al Wef (2’608 voti a favore, 1’237 contrari), dice che un dibattito aperto a Davos è morto da tempo e che il clima generale è di rassegnazione, ma – aggiunge – «che almeno non si venga a dire che qui tutti amano il Wef». Susanne Gysi, Davos Turismus, gli albergatori, i giornalisti ci dicono che qui a Davos la popolazione è praticamente tutta a favore del Forum economico mondiale. È vero? Certo, chi ci fa i soldi ama il Wef. Non si può mica toccare la gallina dalle uova d’oro, le stiamo stendendo la paglia. Non ha visto la città? Ma trovo estremamente scorretto dire che a tutti va bene così com’è. In passato abbiamo provato a fare resistenza, parecchie persone non la pensano come la voce ufficiale. Ma qui è difficile esporsi pubblicamente. Perché? Quando avevo lanciato la raccolta delle firme per l’iniziativa che metteva in discussione il Wef, io e la mia famiglia abbiamo ricevuto lettere anonime molto gravi. Sono arrivati anche a minacciarci di morte. Come fai a continuare in queste condizioni? Nel 2003 c’è stata una votazione ed è risultato che quasi il 60 per cento della popolazione è a favore del Wef. In fondo la gente ha potuto esprimersi… È vero, ed ho accettato questo verdetto. Io ormai sono rassegnata. Ci sono dei “però”: restano pur sempre quelle 1’237 persone che non amano questa manifestazione. E non è solo perché la loro città viene messa sotto assedio. Non siamo dei bifolchi che non sanno cogliere le occasioni. Forse, qualcuno non è d’accordo con questo modo di vivere. Con questa gente che viene qui a fare soldi, perché è quello che vengono a fare. La popolazione ha imparato ad arrangiarsi. Nella settimana blindata sopporta le Mercedes con i vetri scuri e l’esercito ad ogni angolo del paese. Non è quello il problema. Il Wef è lì, ormai ce l’abbiamo in casa e non c’è più nulla da fare. La protesta a Davos è morta. Non c’è proprio nessuno che osa mettere in dubbio il Wef? No, ci siamo rassegnati. Bisogna accettare questo fatto. Il Wef resta un circolo di gente privilegiata, un ambiente chiuso e asettico. Dicono di essere lì “to improve the world” (migliorare il mondo, ndr). La verità è che finora non è cambiato niente, non sono riusciti a fare nulla. Vengono qui, si rinchiudono per mettersi d’accordo su come diventare ancora più ricchi. Quando avranno il coraggio di fare un bilancio su 30 e passa anni di Wef? Avete migliorato il mondo signori? La contestazione al Wef sembra che si stia spegnendo. Cosa ne pensa? Penso che è così, c’è un certo disinteressamento. E questo perché la gente si sente impotente. Chi ha più voglia di manifestare se rischia di essere manganellato? Credo che le persone si sono arrese all’evidenza: il denaro e l’esercito sono più forti del loro dissenso e delle loro proteste. Non crede che con l’Open Forum è comunque offerta una possibilità di critica? Non bisogna farsi illusioni, è il Wef che mette i soldi per l’organizzazione dell’Open Forum. È un modo per lavarsi la coscienza e far vedere che si è aperti. Aperti ma non a sufficienza. Anche se a Davos, l’Open Forum è comunque tenuto a debita distanza dal centro congressi. Potete parlare, basta che state lontani.

Pubblicato il

27.01.2006 01:00
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