L'editoriale

Chi scrive appartiene a una generazione che ha visto finire in carcere tante persone perbene, non perché avessero fatto dei torti a qualcuno ma semplicemente per non essersela sentita di spendere del tempo della propria gioventù per imparare a usare le armi e a fare la guerra. A giudicare la loro coscienza e a condannarli erano dei giudici militari, che un po’ applicavano la legge e un po’ la usavano come arma di lotta ideologica e strumento per glorificare l’inutile esercito svizzero: l’arbitrio era la regola, nelle aule giudiziarie si respirava un’aria d’inquisizione, gli obiettori venivano spesso e volentieri umiliati e scherniti, il diritto alla difesa era solo teorico e chi ne faceva uso doveva fare i conti con un aggravio di pena. Il nostro pensiero corre a questa epoca nera apprendendo del progetto del Consiglio federale volto a inasprire le condizioni per accedere al servizio civile, che dal 1996 consente a migliaia di giovani che rifiutano il militare di evitare la galera e mettersi al servizio della collettività nei campi del sociale, della sanità, della tutela dell’ambiente e del territorio o dell’aiuto umanitario e dello sviluppo.


Il progetto governativo ha l’obiettivo di ridurre le ammissioni, in particolare di frenare il fenomeno di quei soldati che dopo aver assolto la scuola reclute passano al servizio civile: si tratta di «ristabilire un equilibrio in termini di attrattività tra servizio militare e servizio civile», spiega il consigliere federale Parmelin, giustificandosi con il presunto «rischio» di vedersi a breve non più garantiti gli effettivi dell’esercito previsti (100.000 soldati). Un rischio «per la sicurezza della Svizzera» che il governo ritiene di sventare mettendo in discussione il prezioso servizio civile e ostacolando dei ragazzi che vogliono fare qualcosa per la società. Semplicemente assurdo.


A parte il fatto che non vi è alcun automatismo tra una riduzione dei civilisti e l’auspicato aumento di militi, il Consiglio federale farebbe meglio a riflettere in modo critico e con oggettività sul senso e sugli obiettivi del nostro esercito. Un esercito che dalla fine della Guerra fredda è perennemente alla disperata ricerca di una ragione per esistere e delle sue missioni: si pensi ai continui e sempre più frequenti impieghi con compiti di sorveglianza armata di edifici sensibili o con compiti di polizia (a basso costo) in occasione di manifestazioni private come il Wef di Davos. Un esercito che ci continua a costare quasi 5 miliardi di franchi all’anno.
Dal Consiglio federale non ci si può certo attendere la proposta di abolirlo (che il popolo ha respinto già due volte), ma un po’ più di lungimiranza sarebbe auspicabile. Si potrebbe per esempio ragionare sul superamento del principio della leva obbligatoria, già realtà in molti paesi europei. E per quanto riguarda il servizio civile, si dovrebbe piuttosto pensare a una sua estensione, per esempio consentendo la partecipazione volontaria delle donne e degli stranieri, perché delle sue prestazioni, a differenza che di quelle dell’esercito, la popolazione ha un comprovato bisogno.


I tempi sembrano non essere maturi, indicano i segnali inquietanti che giungono dal Governo e dai suoi esponenti: si pensi che Ueli Maurer in un rapporto confidenziale al Consiglio federale avrebbe chiesto la reintroduzione del cosiddetto “esame di coscienza” per i candidati al servizio civile, una pratica abolita nel 2009 in favore della cosiddetta “prova dell’atto”, secondo cui la disponibilità a prestare servizio civile per una durata significativamente superiore (1,5) a quella del servizio militare fornisce una prova sufficiente del conflitto di coscienza vissuto dalla persona. Ci manca solo qualcuno che pensi di abolire il servizio civile e a riaprire le carceri per gli obiettori.

Pubblicato il 

26.02.19
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