Fra tre culture

Jihad Darwiche, ci può descrivere in che clima culturale è cresciuto? Io sono cresciuto nella tradizione orale del Medio Oriente, che è quella del mondo arabo. Tra l’altro in Libano la tradizione della poesia popolare è ancora più vitale che quella del racconto. Per diverso tempo infatti si era un po’ persa la tradizione del racconto, che a seguito della guerra ha faticato oltre misura a riprendersi. Ciò non è accaduto con la poesia: i festival e le serate di poesia popolare hanno sempre riscosso un grandissimo successo, anche durante la guerra. La tradizione orale al mio villaggio è ancora molto viva. Ai tempi della mia infanzia sentivo gli abitanti del villaggio fare racconti di vita quotidiana, che spaziavano dal lavoro nei campi alla fiaba, fino alla guerra di Palestina. Del resto sono cresciuto in mezzo a donne che raccontavano in continuazione e che fin da piccolo mi hanno trasmesso questa passione. E la parola orale da allora ha mantenuto intatta tutta la sua centralità: ancora oggi chi dà la sua parola è vincolato, e con lui i suoi discendenti, più che se avesse firmato un contratto su carta. Io stesso non scrivo mai i racconti che ho in repertorio, tranne quando mi accorgo che non ho più voglia di proporli in pubblico. Che posto hanno nella sua formazione e nella vita quotidiana in Libano le tre grandi culture legate alle religioni monoteiste ebraica, cristiana e musulmana? Sono cresciuto a metà nella cultura araba e a metà in quella cristiana. Al punto che non potrei distinguere l’una dall’altra. Non solo, ma da piccolo ho vissuto a stretto contatto anche con famiglie ebree, e lo scambio di racconti e informazioni con i loro figli a scuola era continuo. Certo sono di famiglia musulmana, ma credo di aver frequentato più la chiesa che la moschea perché avevo più amici cristiani che musulmani, e con loro si faceva quindi il Natale, si andava alle loro feste o alle cerimonie che riguardavano le loro famiglie, e così via. Soprattutto la mia generazione, quella diventata adulta prima della guerra, è cresciuta nelle due culture senza poter distinguere l’una dall’altra. Questa fusione emerge nei fatti quotidiani della vita: chi abita nella mia regione può invocare indifferentemente Maria o Maometto. Quanto alla tradizione ebraica, l’ho conosciuta più da vicino quando sono venuto in Europa e sono entrato in contatto con la tradizione dell’est. E mi ha impressionato la quantità di punti in comune fra cultura musulmana, ebraica e cristiana. Ad esempio i musulmani raccontano la storia di un ebreo che si converte all’Islam in Andalusia: la stessa identica storia la raccontano i cristiani, con un ebreo che si converte al Cristianesimo. E nelle fiabe della regione c’è un personaggio ricorrente, il pazzo-saggio, che ha le stesse caratteristiche e lo stesso nome sia nella cultura araba che in quella ebraica. Purtroppo oggi tutto ciò che in Libano conosciamo dello Stato di Israele sono le bombe. Finché la situazione politica non muterà sarà difficile avere degli scambi culturali con quel Paese. In che rapporti sta la regione di confine da cui lei proviene con la Palestina? La mia famiglia è libanese, ma vive nel sud del Libano, a 30 chilometri dalla frontiera palestinese, per cui ha numerosi legami con le famiglie palestinesi dall’altra parte del confine. Prima del 1948 il sud del Libano aveva molte più relazioni commerciali e di parentela con il nord della Palestina: per noi la capitale Beirut era molto più lontana. Ora le cose si sono fatte molto più difficili. A me come a molti altri lo Stato di Israele vieta di andare nei territori palestinesi. Come sono nati i racconti di guerra che ha proposto al Festival di Arzo? Avevo voglia di parlare di persone che mi sono care, soprattutto donne, e volevo farlo riferendomi al periodo della guerra. Durante la guerra infatti la vita economica s’è praticamente fermata e, mentre gli uomini se ne stavano davanti a casa o al caffé a passare informazioni, le donne hanno di fatto garantito che la vita continuasse. Erano le donne che facevano il pane, si occupavano dei bambini, tenevano in ordine la casa, si riappropriavano di gesti che erano stati loro ma di cui erano state spossessate, primo fra tutti il parto, che negli ospedali non era più possibile. È per rendere omaggio a queste donne che ho preparato questo programma di racconti. C’è in Libano una tradizione di racconti di guerra? Sta nascendo. Ci vuole del tempo perché nell’animo della gente i fatti vissuti in guerra si stemperino un po’ e diventi possibile parlarne. Io propongo racconti di guerra dal 1985 perché ho lasciato il Libano nell’82, ciò che mi ha permesso di prendere un certo distacco e quindi di parlare di fatti per me molto dolorosi. E questo ho potuto farlo anche perché li ho messi in forma di racconto: è la struttura narrativa, oltre al distacco di tempo e spazio, che me li ha un po’ allontanati emotivamente. Quando oggi propongo i miei racconti di guerra in Libano il pubblico non osa reagire, è contratto. In generale è solo da un paio di anni che in Libano si comincia a pubblicare romanzi ambientati negli anni della guerra e che nella tradizione orale cominciano ad entrare racconti di quel periodo. Non c’è il rischio di un uso politico di questi racconti? No, anche perché io non voglio giudicare. Nei miei racconti non distribuisco torti o ragioni. Mi interessano i gesti più banali, quotidiani, che fanno sì che la vita continui anche sotto i bombardamenti. Certo, se ad esempio racconto di matrimoni misti fra arabi e cristiani, ammetto che nella scelta dei personaggi o delle storie da raccontare c’è anche un risvolto politico. Ma non ho voglia di fare un uso politico di questi racconti, perché, se voglio parlare di politica, lo faccio con altri mezzi: il racconto mi sembra invece più adatto a porre questioni di fondo, a parlare di ciò che è universale e profondamente umano in ognuno di noi, ad andare oltre la contingenza del momento. Questo credo li renda immuni da abusi anche da parte di terzi. Lei prima di diventare narratore ha fatto uso della parola orale come giornalista radiofonico. Che esperienza fu? Ho avuto due esperienze diverse in radio. Dapprima per un’emittente in cui al microfono si era abbastanza liberi se non di dire la propria opinione, almeno di riferire la verità. È imparando l’uso della parola in questa radio, capendo come si possono far passare dei messaggi con formulazioni apparentemente innocenti, che mi sono appassionato al mestiere di giornalista. Poi però ho lavorato per la radio ufficiale di Stato, e lì il clima interno cambiava molto spesso e le discussioni erano praticamente infinite. Alla radio ufficiale, soprattutto all’inizio, si negava anche l’evidenza: Beirut era bombardata, ma si doveva dire che tutto è tranquillo e che il governo ha la situazione perfettamente sotto controllo. Lì il gioco di far scivolare informazioni “proibite” nelle notizie ufficiali era ancora più avvincente.

Pubblicato il

06.09.2002 06:30
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