I confini della lingua: intervista a Fabio Pusterla

L'inglese tallona le lingue nazionali. L'insegnamento delle lingue straniere nelle scuole elvetiche ha riposto ancora una volta una delle questioni cardini della storia della Confederazione: la lingua quale elemento di coesione nazionale. Molti cantoni hanno privilegiato l'introduzione della lingua anglosassone rispetto ad una seconda lingua nazionale, mentre il Ticino (ed altri cantoni) ha preferito continuare sulla strada già tracciata. Ma quali criteri condizionano una scelta piuttosto che un'altra? Ne abbiamo parlato con il poeta e docente Fabio Pusterla. Priorità all'inglese o a una seconda lingua nazionale? Trova che la questione dell'insegnamento delle lingue straniere sia stata dibattuta nei giusti termini? Come ho già avuto modo di osservare in un paio di occasioni, mi sembra che la questione linguistica, cioè la scelta di quali lingue straniere privilegiare nell'insegnamento scolastico svizzero (ma nel nostro caso ticinese) sia stata affrontata negli ultimi anni in modo molto discutibile. La mia impressione, tanto per cominciare, è che questa discussione stia avvenendo secondo criteri più pragmatici e utilitaristici (si cerca di stabilire quale lingua "serve" maggiormente nella comunicazione immediata) che culturali e pedagogici. Una discussione portata avanti, bisogna aggiungere, con modalità assai poco chiare: non si è capito, sin qui, chi discute, e a quale titolo; chi e come e su che basi prenderà le decisioni; fino a che punto le scelte cantonali dovranno o potranno tener conto delle scelte degli altri cantoni, o dovranno o potranno avvenire nella più totale autonomia; se e in che misura l'opinione degli insegnanti, e più in generale di quanti credono di poter contribuire al dibattito, verrà tenuta in considerazione; e così via, secondo un copione non proprio inedito e non proprio entusiasmante. Vedo in questo un ulteriore, inquietante segnale, che sembra indicare un rischio molto serio: quello di asservire l'organizzazione della scuola e dello studio a delle esigenze immediate, tanto forti e visibili quanto mutevoli e discutibili. E se è ovvio e innegabile che la scuola debba fornire agli studenti una preparazione concretamente utilizzabile per inserirsi nel mondo sociale e produttivo, dovrebbe essere altrettanto ovvio e innegabile che lo scopo dello studio e le finalità della scuola non si possono esaurire in questa sorta di formazione tecnica e vincolata. In questo quadro, non si tratta prioritariamente, secondo me, di pronunciarsi a favore o contro l'inglese: ma di ragionare su un progetto culturale — e non solo "comunicativo" — all'interno del quale l'insegnamento di determinate lingue (e della cultura prodotta in quelle determinate lingue) ha o non ha un senso. C'è chi vede nel privilegiare la lingua anglosassone una minaccia alla propria identità culturale, nonché un atteggiamento di sudditanza nei confronti della cultura americana. Lei cosa ne pensa? Non credo che privilegiare la cultura anglosassone costituisca una minaccia a una presunta identità culturale ticinese o svizzera. Dubito, intanto, che una simile identità esista in maniera così sicura: ne dubito a livello nazionale (basterebbe domandarsi, a questo proposito, quanto lo studio delle altre lingue nazionali abbia rafforzato i veri legami culturali tra le regioni linguistiche svizzere, o anche solo le reciproche curiosità: pochino, mi sembra di poter dire); ma ne dubito anche per quanto concerne il livello cantonale. Se poi esistesse davvero, quell'ipotetica identità, non ne farei assolutamente qualcosa di sacro e immutabile: mi pare che queste siano preoccupazioni ormai desuete. Non credo neppure che rafforzare il primato dell'inglese corrisponda automaticamente ad inchinarsi di fronte allo strapotere americano: penso invece che sia più che mai necessario distinguere tra una grande lingua di cultura (come è appunto l'inglese, che ha prodotto e produce, anche in America, delle straordinarie esperienze culturali) e una sottocultura barbarica e ripugnante com'è quella che gli avamposti della propaganda americana (cioé la stragrande maggioranza dei media occidentali) tentano di imporci da qualche decennio con evidente successo. Di nuovo, mi pare importante, ma anche sempre più difficile da qualche tempo, rivendicare la superiorità della profondità culturale sulla utilità comunicativa, della crescita spirituale sulla visibilità economica e politica; insomma, della conoscenza sulla tecnica. Dovrebbe essere la conoscenza, la tensione conoscitiva, a costituire il nucleo più profondo della scuola e della vita; dovrebbe essere la conoscenza a rendere comprensibile e dominabile la tecnica. Mi pare invece che le forze cui siamo sottoposti, e a cui, temo, non sa e forse non vuole neppure sfuggire il dibattito sulle lingue, siano di natura quasi opposta, e tendano a costruire un futuro sempre più tecnologico, sempre più tecnicamente comunicativo. Ma: comunicativo di che? Alla giornata di studio del Ps ticinese, Silvano Gilardoni ha evidenziato come si vada sempre più sminuendo il ruolo della lingua madre quale veicolo di trasmissione culturale. Crede che anche all'interno del dibattito sull'insegnamento delle lingue straniere il problema venga trascurato, se non rimosso? Che la lingua materna (o meglio la disattenzione assoluta con cui i responsabili di questo dibattito linguistico continuano a non considerare la lingua materna, quasi si trattasse di un oggetto "altro" e trascurabile) costituisca uno dei fulcri della questione, dovrebbe essere chiarissimo. Solo assumendo sul serio (e non solo a parole) lo studio della (e l'amore per, che dallo studio dovrebbe derivare) lingua materna come punto di partenza essenziale per ogni ulteriore processo conoscitivo, e dunque potenziandone massicciamente i mezzi in dotazione (oggi del tutto insufficienti), si potrebbe davvero orientare la riflessione nel senso che ho poco fa cercato di riassumere. Gli studi, le notizie di cronaca, ma persino ormai gli esempi spiccioli e correnti relativi a un sempre più diffuso impoverimento linguistico e culturale, a una sempre crescente difficoltà dei giovani di fronte alla decifrazione degli aspetti basilari della realtà (la pagina di un giornale, le istruzioni per l'uso di un medicinale, le modalità di voto), sono o dovrebbero essere noti a tutti. Non si tratta, sia ben chiaro, di rilanciare una specie di crociata a favore, nel nostro caso, dell'italiano, o, peggio ancora, di scatenare una lotta tra materie e discipline per stabilire quali debbano essere le più importanti (e dunque le meglio dotate in termini di ore scolastiche; aspetto, comunque, non proprio trascurabile, se si pensa allo spazio modestissimo che lo studio dell'italiano ha nelle nostre scuole, medie e medio superiori). Piuttosto, bisognerebbe ripensare al senso complessivo della scuola, al modo in cui le conoscenze basilari ottenute nella e attraverso la lingua (e la cultura) materna possono fruttificare anche entro altre lingue, altre culture, altre discipline; e a come possano allearsi, queste altre lingue, queste altre discipline, attorno a un unico, alto progetto di conoscenza e di crescita interiore. Ma proprio un simile progetto appare oggi sempre più fragile, sempre più minacciato, e sul punto di frantumarsi definitivamente in un puzzle di conoscenze tecniche e settoriali incapaci di formare una figura d'assieme dotata di senso.

Pubblicato il

22.06.2001 02:00
Maria Pirisi
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