I nostri anni bui al Grand Hotel del terrore

Gli ex prigionieri politici argentini raccontano la dura vita nel carcere di Coronda: lo chiamavano l’albergo, ma era luogo di soprusi e resistenza

I prigionieri politici che sono stati ospiti del famigerato carcere argentino di Coronda durante gli anni della dittatura hanno deciso di raccontare la loro vita dietro le sbarre. La storia della loro prigionia, pubblicata in Argentina nel 2003, sta ora per uscire in italiano in un libro dal titolo Grand Hotel Coronda (Albatros) e noi ne abbiamo approfittato per parlarne con uno dei coautori.

Dal 1976 al 1983, l’Argentina ha vissuto sotto un brutale regime dittatoriale civile-militare. Nel penitenziario di Coronda, a 500 km da Buenos Aires, tra il 1974 e il 1979 sono stati detenuti un migliaio di prigionieri politici. Un’esperienza terribile che una settantina di ex prigionieri, riuniti nel collettivo El Periscopio, ha deciso di raccontare. Tra di loro vi è Sergio Ferrari, giunto a Berna nel 1979 e dove vive tuttora. Giornalista, militante sindacale, persona attiva in vari ambiti della solidarietà, Sergio Ferrari è stato rinchiuso in quello che ironicamente definivano un hotel quando aveva ventidue anni. Era il marzo del 1976. La sua colpa? Essere un dirigente sindacale del Fronte Studentesco di Rosario.

Sergio Ferrari, come mai, a quasi vent’anni dalla prima pubblicazione in spagnolo avete deciso di pubblicare una versione in italiano?


L’idea nasce da un’operazione precedente. Nel 2020, infatti, abbiamo pubblicato un’edizione in francese. Per tutti noi membri del collettivo è stata un’esperienza molto forte. Abbiamo potuto diffondere le nostre testimonianze al di fuori dei confini linguistici spagnoli. E la risposta, in Svizzera e in Francia, è stata molto positiva: abbiamo aperto una finestra di dialogo che non esisteva, ricevendo grande attenzione e sincera solidarietà. Per questo abbiamo voluto ripetere l’operazione in italiano. Tramite un membro del collettivo c’era già una traduzione, ma non avevamo una casa editrice e il progetto è stato fermo qualche anno. Poi, grazie all’impegno di alcuni compagni in Italia e in Ticino, e anche grazie ai soldi dell’incasso dei libri in francese, abbiamo potuto lanciarci in questa avventura con il sostegno dell’editore Albatros.
 
Parliamo di fatti avvenuti oltre quarant’anni fa lontano dall’Europa. Quale impatto può avere, qui da noi, la vostra testimonianza?


Penso che possa avere un impatto forte. Anche perché, in fondo, i temi che trattiamo sono universali: la lotta e la resistenza contro un potere ingiusto, la solidarietà, ma anche l’amicizia. Le forme della repressione cambiano a seconda dei luoghi e delle epoche, ma si tratta sempre di un’unica battaglia: quella tra chi schiaccia il popolo e chi aspira a vivere in libertà. Oltre a questo vi è anche l’aspetto della memoria, la volontà di non dimenticare quanto successo in quegli anni terribili della dittatura.


La particolarità del libro è che è scritto e firmato da un collettivo. Come mai?


Ci sono voluti tanti anni affinché noi ex prigionieri ci riunissimo e costituissimo come collettivo. Prima, penso, abbiamo dovuto elaborare individualmente quanto vissuto. Poi ci siamo ritrovati e abbiamo deciso che dovevamo raccontare. È così partito il progetto per la prima versione in spagnolo, pubblicata nel 2003. Il libro è composto da testimonianze anonime scritte da settanta autori. Volevamo evocare le nostre lacrime, la nostra sofferenza, ma anche le nostre risate e la nostra resistenza comune. Una resistenza che non poteva che essere collettiva. Per questo, per raccontare il meglio possibile il nostro vissuto carcerale, abbiamo pensato che il miglior modo per farlo era l’approccio collettivo.  
 
Ci spiega la scelta di questo nome, il Periscopio?


Le condizioni di prigionia erano molto severe. Non potevamo fare nulla: parlare, cantare, fischiare o ridere. L’obiettivo del carcere non era educarci, bensì distruggerci. Annientarci. All’epoca eravamo giovani e creativi e fu così che inventammo uno strumento fatto di briciole di pane bruciate che fungeva da piccolo specchio. Fu così che cambiò la nostra detenzione: grazie a questa sorta di periscopio potevamo osservare i movimenti delle guardie e sapere quando sarebbero uscite. A quel punto si attivava un intero sistema di comunicazione: si parlava attraverso la finestra, il lavabo o il gabinetto diventavano il nostro telefono. Abbiamo tenuto vere e proprie lezioni di sociologia, storia e filosofia, ci siamo raccontati i film e abbiamo riso.
 
A proposito di risate. In italiano, il libro si chiama Grand Hotel Coronda. Si può percepire una macabra ironia…


Esatto, si tratta di un’ironia voluta. In quei momenti tragici ridere è stato molto importante. Noi stessi e le nostre famiglie dicevamo di essere al Grand Hotel Coronda, immaginandoci in un hotel a cinque stelle. Era una situazione drammatica, ma mantenere una certa dose di ironia ci ha salvato. Con questo titolo vogliamo affermare che anche in una situazione di tensione estrema si può ridere.
 
Nel 2018, un processo ha portato alla condanna di due ex direttori del carcere. Quale è stato il vostro ruolo?


Da attore culturale siamo diventati un attore giuridico, sostenuti anche da un collettivo di avvocati figli di desaparecidos. Ci siamo costituiti parte civile durante questo processo tenutosi a Santa Fé. La versione spagnola del libro ha servito da prova per l’accusa. Abbiamo testimoniato e, con la nostra voce, abbiamo portato anche quella dei quattro compagni ammazzati in carcere. Nel maggio del 2018 sono tornato anch’io in Argentina a testimoniare. Ero accompagnato da mio figlio ed è stato per me un momento emotivamente molto forte. Il processo è durato cinque mesi e ha portato alla condanna dei due principali imputati per crimini contro l’umanità. Per noi è stata una riparazione morale incredibile. Un grande regalo della Storia.
 
«Da qui uscirete solo morti o pazzi» vi disse il direttore del carcere. Non solo siete usciti vivi, ma nemmeno matti. Anzi, per molti di voi l’impegno militante è stato una costante nella vostra vita. Come se lo spiega?


Siamo entrati in prigione come militanti politici e non abbiamo cessato di militare politicamente, socialmente e sindacalmente fino ad oggi. Tra di noi c’è chi è diventato ministro della salute, chi ha ruoli istituzionali, ma anche chi è attivo a livello locale, nei quartieri. Io in Svizzera sono sempre stato presente nelle battaglie sindacali. Come me lo spiego? La risposta è semplice: non sono riusciti a rompere il nostro impegno. Anche se questo era il loro principale scopo, non ce l’hanno fatta.

Pubblicato il

13.09.2022 15:44
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