I pompieri e l'operaio sotto il canto della luna

Non è un caso di omonimia: il telefono è ancora intestato a lui, a Renato Roncoroni. Il nome del pompiere, che insieme al giovane collega Gianfranco Rima e al capo-officina Romualdo (detto Aldo) Falconi persero la vita per primi nella tragedia, è ancora lì come 40 anni fa iscritto nell’elenco telefonico, a ricordare che la memoria sopravvive alla morte delle persone. E c’è chi, come Franca, oltre a portare lei stessa una parte del nome del marito, la ha perpetuata nel nome della figlia Gianfranca, ora quarantenne, e che quel giorno portava in grembo. Due donne temprate da un dolore comune sono quelle che siedono nel divano di Franca Rima: lei e Cecilia Roncoroni. Non vi sono i nomi dei loro cari, né quello di Falconi, nella lapide di Stabiascio e quando si sfiora l’argomento una punta di amarezza vena le parole di Franca Rima [mercoledì scorso a Maggia, per iniziativa dei Pompieri di Locarno, si è tenuta una cerimonia in memoria dei tre, ndr]: «Hanno perso la vita svolgendo il loro lavoro. E ancora a distanza di 40 anni – nonostante il processo e tutto – mi chiedo cosa sia veramente successo nelle ore che precedettero l’entrata in galleria di mio marito e di Renato Roncoroni. Quella mattina Gianfranco mi disse che mi avrebbe chiamata a mezzogiorno, come era solito fare tutti i giorni, ma quella telefonata non arrivò mai». Da qui il rituale della straziante ambasciata portata da amici e colleghi alle due donne. «E cosa vuole? – dice Gianfranca Rima – La vita ha fatto il suo corso, con la grande disperazione dei primi giorni ma ero giovane, avevo 25 anni, una bimba in grembo e una di 3 anni da allevare. “Quando finirà di morire papà?”, mi chiedeva la piccola ogni volta che mi recavo alla tomba di suo padre. Per me era come un pugno nello stomaco. Ho ricacciato più volte le lacrime di fronte alle mie figlie perché avevano il diritto di crescere serene, nonostante tutto». Così come lo avevano i figli di Cecilia, allora una bambina di 3 anni e un bimbo di 8: «Ho vissuto – dice – tutte le difficoltà di chi come me, col peso di un forte dolore, si è ritrovata a fare da madre e da padre contemporaneamente». Il ritorno a quei giorni attraversa anche vuoti. «Sa – aggiunge Franca Rima – forse noi due [lei e Cecilia Roncoroni, ndr] siamo state quelle che hanno saputo meno di tutte. In più, oltre alla tragedia, io e Cecilia negli anni a venire abbiamo sentito intorno a noi allusioni come se il tutto fosse successo per colpa dei nostri mariti e della loro incoscienza. Di certo potevano scaricare su di loro le colpe, tanto non potevano difendersi. La sensazione è che siano stati mandati un po’ allo sbaraglio, senza dar loro tutte le informazioni necessarie per garantire loro la sicurezza». E qui, sommessa, subentra Cecilia Roncoroni a riportare alla luce qualcosa che allora allargò la ferita della perdita. «Uscivo dall’ultima seduta del processo quando udii in aula commentare a mezza voce: “certo che la boria fa brutti scherzi”. Mi bruciò sentire questo quando si sapeva che mio marito era una persona ponderata ed esperta nell’uso di maschere antigas e non avrebbe mai condotto nessuno allo sbaraglio se solo avesse sospettato dei rischi a cui andava incontro. Una cosa so ora: che la verità si è diluita nel tempo, in quello intercorso fra la tragedia e il processo e in quello che ne seguì». Resta silente la voce del capo-officina Aldo Falconi, proveniente da Foresto Sparso (provincia di Bergamo) e poco conosciuto il suo volto. Non era un gran chiacchierone e la sua indole mite è rimasta impressa a Danilo Cieslakievicz, da 41 anni impiegato all’Ofima e oggi capo-officina di Robiei. «Era un uomo imponente pacato, il classico bonaccione. Ci si ritrovava quando c’erano problemi tecnici e spesso mi fermavo nella mensa del Consorzio Scanera dove continuavamo a parlare di lavoro e di altre cose quotidiane. Di lui ho un ricordo bellissimo. Ma ricordo anche che in cantiere l’umore dei minatori poteva cambiare dalla mattina alla sera: a volte, dopo aver dovuto lavorare per ore tra mille difficoltà, uscivano scuri in volto, con gli occhiali in mano e i nervi alle stelle. Quella era gente che non tornava a casa per sei mesi interi. Se penso ad allora, penso anche a quando la domenica sera chi di rientro da casa, chi da una svago in valle ci si ritrovava seduti sulla barella della teleferica. Che ci fosse o meno la luna cantavamo a squarciagola».

Pubblicato il

17.02.2006 05:00
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