Ideali che si fanno reali

Ci vuole molta forza per credere nei propri ideali, specie se sono controcorrente, e soprattutto per metterli in pratica. Così spesso, immaginandoci un altro mondo forse possibile ma che certamente non c’è, ci ritroviamo per darci forza a canticchiare i versi di John Lennon: «you may say I’m a dreamer, but I’m non the only one...». “Imagine”, appunto. Ed è proprio con questi versi che Irene Bignardi, già giornalista culturale per il quotidiano “la Repubblica” e da tre anni direttrice del Festival internazionale del film di Locarno, ha deciso di aprire il suo ultimo libro, da qualche giorno in libreria per le edizioni Feltrinelli. Titolo “Le piccole utopie”, in copertina, gongolante nella sua ieratica bellezza, Rabindranath Tagore, fondatore dell’università di Shantiniketan, in India. E quella di questa scuola molto particolare è una delle sette storie che Bignardi ha voluto raccontare per dimostrare che le piccole utopie si possono anche realizzare. Oltre a Shantiniketan, e raccontate sempre con sottile ironia e uno stile giornalistico molto narrativo e piacevole, Bignardi propone al lettore le storie della città verticale voluta in pieno deserto americano da Paolo Soleri, di quell’Eden per artisti nel nord dello stato di New York che è Yaddo, dell’avventura pacifista del Costa Rica, dell’esperanto come lingua transnazionale e dell’utopia evangelica realizzata in terra da Don Zeno a Nomadelfia. E, di particolare interesse per noi, Bignardi racconta anche dell’avventura ideale, spirituale, politica e artistica del Monte Verità, sopra Ascona. Bignardi s’è volutamente concentrata su alcune utopie del secolo scorso (anzi: su alcuni luoghi-utopia dove un forte ideale ha trovato concretizzazione), tralasciando quelle ottocentesche, già mille volte raccontate, dei Robert Owen, dei Saint Simon o dei Fourier. Seguirla in questi suoi sette viaggi è divertente e appassionante, e permette di riannodare ed intrecciare in modo inatteso molti dei fili ideali lungo i quali, malgrado tutto, è corsa la storia del ’900. Irene Bignardi, come è nata l’idea di scrivere un libro su quelle che lei definisce “le piccole utopie”? È nata molto tempo fa, quando ancora facevo la giornalista. Ero al festival del cinema di Calcutta e quasi per caso m’imbattei nell’università di Shantiniketan, situata a nord di Calcutta, fondata da Rabindranath Tagore. Di quel posto molto speciale mi aveva colpito la valenza ideale, utopistica. Questo mi spinse a fare un elenco delle piccole utopie del ‘900, utopie che in qualche modo avevano trovato una loro attuazione, con il proposito di farne un libro. Ne parlai con il caposervizio di cultura a “la Repubblica” che mi incoraggiò a proseguire nella mia idea, al punto da mandarmi a fare qualche servizio per il giornale sui luoghi di queste piccole utopie. L’elenco delle utopie che avrei voluto raccontare era in realtà un po’ più lungo, ma i tempi per rispettare il contratto con Feltrinelli, complice anche il mio lavoro a Locarno, si sono compressi, e ho dovuto limitarmi a raccontarne. Generalmente si associa la parola “utopia” a qualcosa di ideale e teorico. Invece quelle che lei racconta sono in realtà dei laboratori di vita quotidiana. Sì, sono laboratori di vita che però nascono tutti da un’idea che sembra utopica. Anche la cittadina di Celebration, in Florida, costruita dalla Disney, è una sorta di laboratorio di vita quotidiana, ma ha come motore una speculazione edilizia, non certo un’idea utopica come quella dell’architetto Paolo Soleri che in qualche modo è riuscito a concretizzarla nella sua Arcosanti. È l’intenzione che rende utopici questi laboratori. Certo è un ossimoro, perché le utopie realizzate di per sé non sarebbero possibili: ma il loro ideale è tanto forte che anche se sono in qualche misura realizzate, restano comunque in gran parte una meravigliosa utopia. In particolare nel capitolo dedicato alla cittadina di Arcosanti ideata dall’architetto torinese Paolo Soleri lei accenna ai possibili risvolti inquietanti delle utopie che si realizzano. Qual è l’elemento più inquietante: l’aspirazione di una sola persona a dettare le regole per una società perfetta? Le utopie si incarnano sempre in una persona. In tutte le sette storie che racconto c’è sempre una figura trainante, che sia Tagore piuttosto che Soleri o Don Pepe Figueres, che diede al Costa Rica la costituzione che abolì l’esercito. In realtà inquietante è piuttosto che allo scomparire della rispettiva figura di riferimento l’utopia tende ad estinguersi. Questo è vero in particolare per Shantiniketan, che è stata completamente riassorbita dal sistema educativo indiano pur restando un luogo che almeno fisicamente e per la tradizione continua ad avere un sapore diverso. Il caso del Costa Rica costituisce una bella eccezione, perché dopo Figueres, che ha iscritto la sua utopia nella costituzione, ci sono state altre personalità che hanno saputo rilanciarla, come Oscar Arias Sanchez, insignito del premio Nobel per la pace per aver esportato l’idea di Figueres a Panama. Si può riconoscere un’idea egualitaria che fa da minimo comun denominatore alle sette storie che racconta, o è una forzatura? Mi pare una forzatura. È vero che ognuna di queste idee porta con sé il suo pezzo di egualitarismo, ognuna in misura diversa, in particolare a dipendenza del problema cui ogni singola utopia ambisce a rispondere. Nel caso dell’India ad esempio il problema delle caste, delle classi sociali e delle religioni è qualcosa di molto profondo e radicato nei costumi, che non si può sperare di risolvere con un approccio semplicemente egualitario. L’esperanto a sua volta non ha nel suo Dna l’egualitarismo, ma tantissimo transnazionalismo. E così nel caso di Yaddo si tratta semmai di un’utopia molto aristocratica, legata all’intelligenza e alla creatività, che però al suo interno offre un trattamento egualitario sia ai ricchi che ai poveri. Nell’utopia di don Zeno invece l’egualitarismo è decisamente smaccato, ed è anzi la stessa ragion d’essere di Nomadelfia: vedere queste famiglie allargate nelle quali le tradizionali famiglie nucleari sono assolutamente fuse e del tutto irriconoscibili quanto ad attitudini e comportamento è veramente impressionante. In che rapporto stanno queste piccole utopie con le grandi utopie che tutti conosciamo: è un rapporto generazionale, di filiazione? Nomadelfia può essere una filiazione del cristianesimo nel senso di un ritorno alle sue origini. Quanto alle altre piccole utopie, mi sembrano del tutto sconnesse rispetto ad un discorso di questo tipo. Il ‘900 ha vissuto della grandiosa e tragica utopia del comunismo, e non c’è dubbio che questa come il cristianesimo ha lasciato dei germi di desiderio di una società migliore. E un po’ di questi germi li si ritrovano in tutte le piccole utopie che racconto. Perfino la città verticale di Arcosanti, con l’idea di ridurre l’intera comunità ad una cellula in cui tutte le funzioni e le professioni si mescolano vivendo assieme, può essere intesa come una visione estrema di una società comunistica. Quanto a Lejzer Ludwik Zamenhof, il creatore dell’esperanto, era socialista. Ma nessuna di queste piccole utopie si rifà compiutamente al comunismo: ci sono troppe altre componenti culturali e storiche che ne confondono i rapporti di filiazione. Perché il libro non ha una conclusione? Perché sono una cronista, e come tale viaggio raccogliendo materiali da porgere ai lettori: che poi si faranno la loro di conclusione, pensando magari che perfino nella loro vita famigliare si possono ricreare alcuni degli spunti ideali che ci sono in queste storie. Lei ha trovato qualcosa in questi viaggi che ora ha tradotto nella sua vita quotidiana? Io tendo a vivere in una permanente utopia, quella della fiducia nelle persone. Per cui spesso finisco per essere fregata. Quindi i rapporti di causa ed effetto vanno un po’ invertiti: siccome ho un lato utopico nella mia vita ho trovato un tema che mi è particolarmente congeniale e l’ho trattato. Se fosse condannata a vivere in una di queste sette utopie, quale sceglierebbe? L’utopia più comoda e lussuosa è probabilmente quella di Yaddo, il sogno della comunità ideale nutrita dalla fantasia, dall’intelligenza e dalla creatività di chi la abita. Ma l’utopia che mi affascina di più è Shantiniketan, un centro di studio e di ricerca dominato da una pace meravigliosa e da un’atmosfera speciale.

Pubblicato il

13.06.2003 04:30
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