Il cavaliere è caduto da cavallo

«Un’ecatombe». Così l’ex governatore del Lazio, il post-fascista Francesco Storace, ha sintetizzato il risultato delle elezioni in 13 regioni italiane. Un’ecatombe per Berlusconi, il suo governo, l’arroganza con cui pretende di stravolgere la Costituzione nata dalla Resistenza, la sua politica sociale ed economica antipopolare. 11 regioni su 13 sono state conquistate dallo schieramento di centrosinistra allargato a Rifondazione comunista e quando tra una settimana, si voterà in Basilicata (qui il voto è stato ritardato di quindici giorni), il bottino sarà completo: 12 a 2, se non proprio un cappotto, un eschimo. Berlusconi e i suoi alleati perdono in voti, percentuali e consiglieri ma resistono soltanto in Lombardia e Veneto, lo zoccolo duro padano del Cavaliere di Arcore. Il centrosinistra ha strappato alla destra il Piemonte e la Liguria nel Nord Italia, l’Abruzzo al Centro e al sud la roccaforte forzista pugliese e la Calabria. «Non conta il numero delle regioni ma il numero assoluto di voti per decidere chi ha vinto», aveva messo le mani avanti il presidente del consiglio. D’accordo, allora possiamo dire che Silvio Berlusconi e i suoi alleati – nazionali e padani – hanno perso alla grande, con un centrosinistra schizzato al 52-53 per cento, quasi 8 punti di distacco sulla destra e due milioni di voti in più. L’effetto disturbo della nipotina del duce, Alessandra Mussolini, è stato pressoché inesistente (tranne in Puglia) e ciò toglie anche l’ultimo alibi all’Unto del Signore che presumibilmente tenterà di riagganciare un rapporto con gli irriducibili fascisti in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. Roma val bene il saluto romano, almeno per Berlusconi se non per tutto il suo schieramento. Se dividiamo l’Italia in tre fette, possiamo dire che tra le elezioni di domenica e quelle precedenti, al Nord la destra resta accerchiata nel Lombardo-Veneto; il centro è completamente in mano alla sinistra (più che al centrosinistra) e nel Mezzogiorno resiste soltanto la Sicilia (la Sardegna era già stata espugnata dall’imprenditore Soru che si sta battendo come un leone per buttare a mare le basi americane nell’isola e liberare le coste che si affacciano sulle acque più belle d’Europa dalla speculazione edilizia). “Forza Italia” con la foto di un Berlusconi sconvolto è il titolo del quotidiano il manifesto di martedì che riassume il sentimento comune della maggioranza degli italiani. Infatti, più che di una vittoria dell’opposizione si può parlare di un fallimento della politica berlusconiana. Non è bastato il pieno mediatico di Sua Emittenza, i massaggi ai muscoli di Vespa e Fede e Ferrara e Masotti non hanno sciolto i crampi del “nudo proprietario” del Milan. L’allarme rosso rivolto agli italiani sulla minaccia rappresentata dai comunisti antropologi è stato un autogol e oggi che è iniziata la resa dei conti a destra, il vicepresidente Gianfranco Fini dalla Farnesina attacca Berlusconi gridando che il voto di domenica è un voto post-ideologico, mentre i centristi dell’Udc sono più precisi ancora: basta con l’anticomunismo. È rimasto deluso anche chi sperava nell’influenza della ultramediatizzata morte di papa Wojtyla sul risultato elettorale: la folla mesta di piazza San Pietro non si è fatta incantare dalle sirene che circondano la salma del pontefice – Ruini in testa – e avevano intonato cori berlusconiani. A Cesare quel che è di Cesare, a dio quel che è di dio. E forse anche al referendum sulla procreazione assistita sarà Cesare a contare più di dio, o meglio di chi tenta di usarlo a fini temporali. Wojtyla era il papa che ha abbattuto i muri comunisti (ma ha fallito nella critica al capitalismo nella sua forma storicamente determinata, il liberismo), era però anche il papa della pace, contro quasi tutte le guerre (con l’eccezione jugoslava). La sua morte non è stata incassata dalla destra. La sconfitta più amara per la destra è in Lazio perché è quella che apre lo scontro tra Forza Italia e Alleanza nazionale, cioè tra Berlusconi e Fini. Il secondo ha un altro conto in sospeso con il premier a proposito del pugno di ferro del leghista Maroni contro gli statali – una delle basi elettorali di An e Udc – a cui nega il rinnovo del contratto. La vittoria più dolce per la sinistra è quella realizzata sul filo di lana da Nichi Vendola – comunista, movimentista e persino omosessuale – nelle cattoliche Puglie. Vendola governatore nella terra di Moro, poi del craxismo, poi del binomio Forza Italia-An, è un grimaldello che può far saltare uno dei più radicati quanto insensati luoghi comuni del centrosinistra italiano: l’idea che per vincere bisogna buttarsi al centro scimmiottando l’avversario, un liberismo mitigato da coriandoli di welfare, una chiusura ai migranti appena meno razzista di quella della destra, un attacco un po’ più equilibrato allo Statuto dei lavoratori, dubbi invece che certezze sulle “guerre giuste”, una dipendenza leggermente più orgogliosa dalla terra promessa d’Oltreoceano. La vittoria di Vendola dice che ce la si può fare non solo grazie agli errori dell’avversario ma anche per meriti propri, che in un sistema bipolare – che lo si condivida o lo si combatta – bisogna essere alternativi nei programmi, cosicché gli elettori possano scegliere tra due modelli diversi di società e non tra un originale e la sua fotocopia. Questo concetto sembra averlo capito più Romano Prodi che non i partiti che lo sostengono, eccezion fatta per Bertinotti e il Prc. Il bello viene adesso, in Italia. Che farà il centrosinistra uscito vittorioso dalle urne regionali? Non chiederà le dimissioni del governo, questo l’hanno già detto quasi tutti i leader, dai Ds alla Margherita che in quasi tutte le regioni si sono presentati insieme e con i socialisti dello Sdi sotto il simbolo “Uniti nell’Ulivo”. Si apre dunque una stagione elettorale lunga un anno, sempre che le destre non decidano di togliere le castagne dal fuoco agli avversari auto-affondandosi. Un anno pericoloso, dove l’animale ferito sferrerà pesanti colpi di coda sul versante istituzionale e costituzionale. Come diceva il poeta, pur rivolgendosi non certo all’opposizione italiana ma ad altri interlocutori: “Qui si varrà la vostra nobiltade”.

Pubblicato il

08.04.2005 03:00
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