Il cinema fra gioco e mestiere

Un regista anomalo, sempre schierato dalla parte degli umili, della gente comune. Un uomo che anche quando parla preferisce i toni sommessi e cerca i termini più precisi per esporre il suo pensiero, e che quando filma non scorda la dimensione artigianale del cinema. A 73 anni la grandezza di Ermanno Olmi non si discute più: a consacrarla ci ha pensato quest’anno anche il Festival di Locarno attribuendogli il Pardo d’onore. Ora i cineclub ticinesi gli dedicano una retrospettiva comprendente una dozzina di suoi film, i più significativi. Non può mancare, ovviamente, “L’albero degli zoccoli”, ma nemmeno il suo primo successo internazionale, “Il posto” del ’61. Ci sono anche “La leggenda del santo bevitore” (’88) e gli ultimi suoi due lavori, “Il mestiere delle armi” (2001) e “Cantando dietro i paraventi” (2003). Significativamente intitolata “Ermanno Olmi – Il mestiere del cinema”, la retrospettiva prende avvio giovedì 16 settembre a Lugano e farà tappa anche a Giubiasco, Locarno e Chiasso (informazioni: www.cicibi.ch). In questa intervista raccolta in occasione del Festival di Locarno Olmi ripercorre la sua carriera, e ci parla di cinema lasciando soprattutto trasparire la sua grande umanità. Ermanno Olmi, c’è un filo rosso che lega tutta la sua produzione cinematografica? È la costante adesione con la mia vita. I film che ho fatto corrispondono alla mia trasformazione successiva. Dove il mio sguardo si è posato per farne un film è perché in quel momento la realtà che osservavo mi aveva totalmente catturato. Credo che tutto quello che facciamo è per noi un modo per trasformarci. Prima di innamorarci della ragazza della nostra vita avremo dovuto incontrarne e conoscerne alcune altre: e anche quelle di cui non ci siamo innamorati ci hanno dato l’opportunità di capire qualcosa. Senza di loro non saremmo mai arrivati alla ragazza della nostra vita. E cosa cerca oggi nel suo lavoro? Il bisogno di vivere. Perché vivere significa essere attivi, partecipare alla vita in tutte le manifestazioni che essa ci propone. Non si può fermare il bambino che ha come scopo di vivere il gioco, proprio perché il gioco per il bambino è la scoperta del vivere. Per me il gioco del cinema è una continua, appassionante, entusiasmante scoperta del vivere. È bello poterlo dire dopo tanti anni di mestiere: non c’è mai stato un momento di disillusione? Guardi che i momenti di delusione ci sono sempre. Anche il bambino che gioca vive momenti di delusione, ma nella sua natura di bambino c’è questa forza prepotente che gli impone di giocare. Il giorno che non avrò più voglia di fare cinema non sarà un guaio se avrò voglia di fare altro. Il guaio sarebbe se non avessi più voglia di fare alcunché: vorrebbe dire che per me è giunto il momento del congedo. Per ora questo non succede: che faccia o non faccia cinema, ho sempre mille cose coinvolgenti da fare. Anche se, per i guai fisici che ho avuto, sono un po’ penalizzato nel lavoro manuale, che mi piace molto. Questa sua passione per la manualità tradisce la sua formazione. Sono stato formato in un ambiente contadino, dove anche l’interruzione invernale non era il tempo dell’ozio, ma si facevano le riparazioni e si preparavano gli attrezzi per la stagione successiva. E si raccontavano storie nella stalla. Anche in un quotidiano minuto, molto umile, chi racconta una storia svolge un bel lavoro. Lei le sue storie le racconta anche a teatro o le scrive. Ho sempre scritto i miei copioni e ora, per la malattia, uno di essi di cui non sono riuscito a fare il film l’ho pubblicato come libro. Ma non mi considero uno scrittore. Però quando mi viene uno stimolo mi metto volentieri ad appuntarlo sulla pagina. Poi magari non lo userò, ma ho bisogno di compiere questo atto lavorativo. Ciò è tipico di quelle società per le quali l’attività quotidiana era quasi un atto religioso. Il lavoro quindi ha una sua sacralità. Non c’è dubbio. Non è un caso allora che agli inizi della sua carriera lei abbia documentato il mondo del lavoro. Sì, ed era il mondo nel quale ho cominciato a muovere i primi passi con la macchina da presa, documentando la realtà che avevo sott’occhio, quella dell’azienda. Poi con l’età e con l’esperienza il mio sguardo s’è dilatato. Da bambino il cortile, o l’aia o il prato in cui giocavo erano tutto il mondo. E credevo anche che per tutta la vita il mio mondo sarebbe stato quello. Ma poi si cresce, si mettono i pantaloni lunghi e si scopre un altro mondo e si amplia lo sguardo. Da lì sono nati i film successivi. Ora che ho l’età del nonno mi metto a raccontare favole. Nei suoi ultimi due lungometraggi, “Il mestiere delle armi” e “Cantando dietro i paraventi”, lei affronta dei soggetti storici per parlare del tema della pace. Come mai? Credo che la guerra sia l’atto più stupido che l’uomo possa compiere, anche sul piano più semplice dell’astuzia del vivere. Perché chi infligge danni, sofferenza, atrocità agli altri non fa che procurarsi le condizioni per riceverne altrettanti. Io da ragazzo ho vissuto la guerra, e constato che questa stupidità non abbandona l’uomo. Ora, come possiamo rispondere ad un’informazione addomesticata che ci porta notizie parziali e demagogiche, se non raccontandoci delle favole, degli apologi in cui si mettono a confronto i vantaggi della pace rispetto agli svantaggi della guerra? Se noi queste cose le togliamo dall’affanno quotidiano, capiamo meglio il rapporto fra stupidità e buon senso. Quindi esclude che l’informazione sia in grado di farci prendere coscienza della realtà del mondo? L’informazione oggi è faziosa perché anche quando non è demagogica si trova comunque in un regime di concorrenza che porta in sé il germe del tradimento dell’informazione: per dare prima la notizia non la verifico, per avere più lettori la altero, e così via. Con l’informazione che si tradisce nel momento in cui aggredisce il destinatario abbiamo ormai superato un grado massimo di oscenità sopportabile. Tutto questo è inciviltà. Lei però qualche speranza ce l’ha ancora, altrimenti non affronterebbe questi temi al cinema. Guardi, io ho la speranza della disperazione. Non è una battuta. Poiché vedo che siamo alla soglia di una necessità di radicale trasformazione, poiché vedo che i giochi dei furbi sono finiti. Sono disperato perché quando crollerà questo baraccone molti soffriranno. Ma al tempo stesso spero che il baraccone cada: con l’augurio di non dover affrontare sofferenze di cui già oggi si vedono i segni. La critica dopo “Il mestiere delle armi” s’è unita in coro dicendo che si era ritrovato l’autentico Ermanno Olmi. Cosa ne pensa? Purtroppo i critici hanno un elemento a sfavore, che è il tempo a loro disposizione sulla scena del mondo, che è brevissimo. Qualche volta quindi rischiano di prendere delle grosse cantonate, ma non ho mai avuto acredine verso di loro. Anche perché col tempo tutto decanta e si recupera un giudizio più sereno. Nel ’61 portai a Venezia “Il posto”. Mi trattarono con sufficienza dicendo che avevo fatto una furbata o, nel migliore dei casi, un bozzetto cechoviano. Quarant’anni dopo gli stessi critici vengono a dirmi che quel film prefigurava chissà cosa. È vero che una stroncatura in età giovanile fa male, perché scoraggia. Alla mia età invece non ho più quest’ansia, per cui leggo le critiche non tanto per sapere se parlano bene o male del film, quanto per sapere se dicono qualcosa di utile, che mi aiutano a migliorarmi, a capire meglio ciò che ho fatto. Un discorso a parte va fatto per quei film che non corrispondono all’umore generale del pubblico, che sbagliano l’appuntamento con la loro esibizione senza colpa per nessuno. Se avessi fatto “L’albero degli zoccoli” quando scrissi il primo abbozzo di storia, 25 anni prima, non gliene avrebbe fregato niente a nessuno. 25 anni dopo, nel ’78, è invece arrivato nel momento giusto. Cosa l’ha spinta ora a salire sul treno con Abbas Kiarostami e Ken Loach per fare un film con loro? Sono due personaggi fantastici e due autori straordinari. L’idea di fare loro compagnia mi ha molto lusingato. Ora che questa frequentazione s’è concretizzata ho constatato come si sia amici se dietro ci sono dei motivi per esserlo: anche quando non ci conoscevamo personalmente lo eravamo già. Anche perché le nostre tre culture, la musulmana di Abbas, la celtica di Ken e la mia mediterranea, sono ben distinguibili, ma non sono state una difficoltà ad avere un sentimento comune, anzi: è proprio in queste circostanze che ci si accorge come le diversità con le loro sfaccettature aiutino ad apprezzare meglio un sentimento comune.

Pubblicato il

10.09.2004 04:30
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