Il teatro per un nuovo mondo

Tanti auguri, Judith Malina! Domenica 4 giugno la cofondatrice dell'ormai leggendario Living Theatre compie ottant'anni. Nata in Germania ma cresciuta a New York, è in questa città che, giovanissima, conobbe e sposò Julian Beck, con il quale nel 1948 fondò il gruppo. Il Living Theatre, legato alla tradizione anarchico-pacifista della sinistra americana e alle avanguardie dell'immediato dopoguerra, si profilò ben presto come la più influente compagnia che, opponendosi radicalmente a Broadway e al sistema politico, economico e culturale che esso rappresentava, aprì al teatro nuove vie ispirando altri gruppi in Europa e negli Stati Uniti. Di molti spettacoli del Living Malina è stata regista e interprete: di lei si ricorda su tutte un'interpretazione in "Antigone" del '67. Dalla morte di Beck nell'85 Malina continua a dirigere il gruppo con Hanon Reznikov, profilando il Living soprattutto con interventi provocatori nel sociale. E continua a lottare come una ventenne per avere finalmente un teatro a New York. L'abbiamo incontrata in occasione di un recente workshop tenuto presso il Trickster Teatro di Novazzano.

Judith Malina, lei sta scrivendo un libro su Erwin Piscator, che fu suo maestro ed ebbe un grosso influsso su di lei. Perché decise di studiare nel suo Dramatic Workshop?
Per predestinazione. Mia madre da giovane in Germania studiava teatro e sperava di lavorare un giorno proprio con Piscator, che nella Repubblica di Weimar era la più grande speranza della cultura tedesca. Poi però lei si innamorò di un giovane rabbino idealista e si sposarono. E all'epoca era impensabile essere moglie di un rabbino ed attrice. Decisero così che lei avrebbe abbandonato la carriera di attrice, e che la figlia ne avrebbe in qualche modo preso il posto. Poi si trasferirono a New York, anni dopo ci andò pure Piscator e aprì una scuola. E al momento che io ho finito il liceo sono andata alla sua scuola come se vi fossi predestinata. Ho studiato e lavorato con lui dal 1945 al '47.
Che rapporto ha oggi con gli insegnamenti di Piscator?
Per me è una parte molto importante della mia vita. È lui che ha inventato il teatro politico moderno, e io ancora oggi provo a continuare e a sviluppare le sue idee. Vogliamo usare il teatro per creare nuove idee per il nuovo mondo. Che non è ancora arrivato, ma ci lavoriamo ogni giorno.
Perché avete scelto il teatro e non un'altra forma d'arte per parlare di anarchia e pacifismo?
Il cinema si presta molto bene per raccontare delle storie. Ma per noi del Living la parte più importante del teatro è il rapporto fra attore e partecipante (non diciamo spettatore). E questo rapporto è oggi particolarmente importante: soprattutto i giovani hanno sempre di fronte a sé uno schermo: televisione, computer, cinema, telefonino, … La presenza vivente del teatro mi pare più importante che mai perché sottolinea la necessità di un'attività comune in cui tutti condividono uno spazio per sviluppare assieme i principi anarchici in base ai quali ognuno ha la sua parte, ha il suo contributo da dare, ha la sua voce.
Cosa si può ancora cercare oggi nel rapporto fra attore e partecipante? Non si è già provato tutto negli anni '60?
Sviluppiamo sempre il nostro stile. Per noi il contatto con gli spettatori rimane centrale, perché anche dopo 50 anni di sperimentazione non abbiamo ancora trovato come dare loro la possibilità non solo di esprimersi, ma di sapere che possono cambiare lo spettacolo. E sapere che possono cambiare lo spettacolo forse li induce a credere che anche fuori dal teatro possono cambiare la situazione. Questa è la nostra sperimentazione continua.
Con quale obiettivo?
Non abbiamo ancora fatto la rivoluzione anarchica. Abbiamo la speranza che il teatro assieme ad altre attività possa condurre ad un vero cambiamento sociale, che chiameremo rivoluzione se non abbiamo paura che sia sinonimo di violenza. Siamo in un conflitto insostenibile, se continuiamo così finirà che distruggiamo il pianeta o ecologicamente o militarmente. Io sono di New York, e so qual è il divario fra i troppo ricchi e i troppo poveri: è impossibile da sopportare, ci deve essere un cambiamento. Certo c'è il pericolo di una soluzione fascista, ma con il contributo del teatro vogliamo andare verso il bene in questa scelta fra distruzione e cambiamento.
Questo però non è il momento della rivoluzione, è il momento della resistenza: al G8 di Genova vi siete presentati con uno spettacolo di strada dall'emblematico titolo "Resist Now"…
A Genova c'erano centomila persone lungo una strada e 200 gruppi che vi facevano teatro e musica. Mi piacciono e mi ispirano molto questi giovani e il loro obiettivo. Perché è diverso dal '68. Per noi era una questione di rapporti fra sinistra e destra, mentre al G8 si manifestava contro il capitalismo. Questo significa che i giovani di oggi hanno capito la posta in gioco, cosa che a noi 40 anni fa non era totalmente chiara. Hanno capito che il problema è l'economia. Naturalmente siamo tutti indotti a credere che cambiare sistema non sia possibile, ma perché? Di fatto dove sono state messe in pratica le forme anarchiche di organizzazione della società sono meravigliosamente riuscite: la Comune di Parigi, in Ucraina, in Spagna, … Poi in Spagna il fascismo e la guerra civile hanno distrutto tutto, in Ucraina s'è imposto un comunismo che, cominciato con grandi ideali, è degenerato nella tirannia, mentre nella Comune sono stati tutti massacrati. Ma sono esempi che possiamo e dobbiamo usare per dare la speranza che un cambiamento, che tutti vogliamo, è possibile. Perché oggi c'è la falsa convinzione che siano possibili soltanto piccoli miglioramenti di cui ci dobbiamo accontentare, ma che ciò che veramente vogliamo non sia possibile.
Come reagisce oggi il pubblico alle vostre performance nelle strade di New York?
Non male, anche se è più freddo del pubblico europeo. Per 11 anni a Time Square, nel cuore di New York, abbiamo fatto senza permesso "Not in my name", uno spettacolo contro la pena di morte. Ora "Not in my name" è diventato uno slogan internazionale contro la pena di morte. All'inizio di maggio abbiamo invece debuttato con un nuovo breve spettacolo contro la guerra, "No sir!". Perché proprio in mezzo a Time Square c'è un ufficio di reclutamento con uno schermo gigante che proietta un video di propaganda con slogan che inneggiano all'onore, al coraggio e alla gloria dei soldati. Noi a partire da questo video abbiamo realizzato una performance con 15 persone davanti allo schermo che rifiutano tali idee. Queste cose le facciamo in strada anche perché non abbiamo ancora uno spazio nostro. 11 anni fa abbiamo incontrato molta ostilità. Ora non è così, le cose stanno cambiando. Per noi anarchici non è un male che Bush sia al governo, perché la gente sta ripensando al senso della democrazia e della vita sociale. Certo al prezzo di una orribile guerra e di un governo stupido e corrotto.
Nel 2003 avete realizzato un workshop in Libano culminato con uno spettacolo nell'ex carcere di Khiam, nel sud del paese, occupato fino al 2000 dall'esercito israeliano e oggi convertito dagli Hezbollah in museo della tortura e dell'oppressione. Che esperienza fu?
Abbiamo lavorato con un gruppo di una trentina di giovani libanesi meravigliosi. Abbiamo fatto uno spettacolo contro la pena di morte, che di fatto era già abolita in Libano, e in un secondo tempo uno spettacolo nel campo di prigionia di Khiam. Una parte del gruppo però non ha continuato con noi. Dicevano "siamo contro la pena di morte ma non siamo pacifisti". È una scelta, per quanto non sia la mia e non la condivida, ragionevole e comprensibile. Questi giovani hanno sofferto molto, tutte le notti della loro infanzia erano in cantina ad aspettare i bombardamenti. Ma come noi vogliono un'altra forma di convivenza. E anche loro sono venuti a vedere lo spettacolo e alla fine ci hanno abbracciato, dicendoci che se avevano fatto un'altra scelta di metodo, però fondamentalmente avevano il nostro stesso obiettivo. L'incontro con gli Hezbollah poi è stato fantastico. All'inizio ci hanno detto che se volevamo fare lo spettacolo uomini e donne non potevano toccarsi. Ma è impossibile perché il nostro spettacolo è fisico. Allora ci hanno chiesto se c'erano baci. Li abbiamo rassicurati che no. Per finire durante lo spettacolo già alla seconda scena anche gli Hezbollah hanno applaudito. Questo perché i partecipanti al workshop, che come in tutti i nostri seminari indicano il tema, hanno avuto l'idea di utilizzare le lettere dei figli dei prigionieri. È quindi stato molto toccante anche per gli Hezbollah… per fortuna non sapevano che siamo ebrei! Quest'esperienza mi ha dato molta speranza, perché mi ha fatto capire che con i musulmani possiamo avere un vocabolario in comune, che non è vero che non ci possiamo capire.
Dal punto di vista formale in che direzione va la vostra ricerca?
Piscator non ha insegnato solo la politica, ma anche le nuove tecniche del teatro. Lui mi ha parlato del teatro totale: il teatro è dappertutto, può essere in strada, in scuola, in un ascensore, in un negozio. E possiamo usare tutti i mezzi: lui ha usato il cinema, il suono, la meccanica. Mi piace usare le tecniche e vogliamo fare delle sperimentazioni con l'informatica e internet ma non abbiamo i mezzi finanziari: non ci aiutano né lo Stato, né le fondazioni private. Ma quando avremo il nostro piccolo teatro potremo fare anche questo genere di sperimentazioni.

Sognando uno spazio a New York

Judith Malina, come sta oggi il Living Theatre?
Abbiamo un grosso atout: cinque membri del gruppo lavorano assieme da oltre vent'anni, altri da cinque o dieci anni. Questo ci permette di operare come un ensemble, cioè un gruppo che lavora assieme per svilupparsi e conoscersi in un senso più profondo: gruppi così non ce ne sono negli Stati Uniti (ce n'è qualcuno, non molti, in Europa). Certo abbiamo la possibilità di crescere, ma ne soffriamo pure: a New York tutti i membri del Living devono fare un altro mestiere perché non possiamo mantenerci soltanto con il teatro. Per me è terribile che a questo punto della mia vita non posso lavorare con un gruppo che è pagato normalmente per il suo lavoro.
È un rifiuto per cause politiche?
In parte. È anche il sistema teatrale che funziona così. Oggi tutti i teatri di New York sono allo stremo. Quando fu creata la Fondazione nazionale per l'arte, qualche anno fa, io capii subito che quelli che davano i soldi avrebbero potuto anche distruggere il sistema. Ed è quanto è successo. Ora tutti i gruppi sono senza soldi perché dipendevano dal governo. Noi almeno questo non l'abbiamo sofferto perché non abbiamo mai ricevuto nulla e quindi nulla ci può essere tolto. Julian Beck ha sempre detto che noi esistiamo da così tanto tempo perché non abbiamo nulla. Ora che avremo il teatro sarà più pericoloso… Ma non credo che questo sia un periodo negativo. È un periodo in cui la gente vuole finalmente un cambiamento, che prende coscienza. Questo è il momento in cui possiamo fare una scelta, e noi con il Living vogliamo proporre un'alternativa.
Dove si svolge attualmente l'attività del Living Theatre?
A Rocchetta Ligure disponiamo di Palazzo Spinola, che ci è stato messo a disposizione dalla generosità degli italiani. Lavoriamo lì di tanto in tanto, ma la maggior parte del nostro lavoro è in giro per il mondo, in Italia ma anche in Svizzera, Belgio, Germania ecc. Adesso però vogliamo aprire un piccolo teatro a New York, abbiamo già anche trovato uno spazio adatto. Perché secondo la nostra analisi se qualcosa deve succedere, succederà a New York, perché è lì che si trova "il ventre della bestia" ed è lì che il conflitto sociale è più acuto. E quando questo qualcosa succede vogliamo parteciparci con le nostre idee. Per noi lavorare in Italia è più facile che a New York, ma con un po' di superbia dico che l'Italia ci ama ma New York ha bisogno di noi. A New York però non abbiamo di che vivere: dobbiamo guadagnare in Italia per lavorare a New York. È una cosa tremendamente triste e stupida che New York non può sostenerci. Vorremmo quindi lavorare meno in Europa, ma economicamente non è possibile.

Pubblicato il

02.06.2006 03:30
Gianfranco Helbling
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