Me ne rendo conto regolarmente e ogni volta me ne rammarico: la nostra società ha la memoria corta. Il fenomeno riguarda tutti, sinistra in generale e sindacato in particolare compresi. A prevalere è il principio del “quel che stato è stato”. E, tutti presi a cercare di reggere il ritmo frenetico di una società che ci usa con la stessa velocità con la quale poi ci getta, nella quale il diritto di appartenenza flirta spesso e volentieri con la lotta per la sopravvivenza (anche in una società strutturalmente forte e finanziariamente ricca come la nostra), finiamo con l’autoconvincerci che il ricordo sia un lusso e che ricordare sia un esercizio nostalgico privo di senso. Al contrario, il ricordo dev’essere coltivato per non dimenticare persone e fatti, mentre ricordare è una necessità per favorire la nostra crescita di persone consapevoli. Tant’è che questa volta dedico la rubrica al ricordo di una persona eccezionale e di un fatto tragico, compiendo un salto indietro nel tempo di cinquant’anni.


La persona è Guglielmo Canevascini. Il 20 giugno 1965 moriva a Lugano colui che può ben essere definito un padre della Patria ticinese, protagonista di un percorso di vita caratterizzato da grandi realizzazioni che a loro volta coronavano splendide intuizioni. Mi limito, su un giornale sindacale, a ricordare l’importante ruolo da lui avuto nella Camera del Lavoro che, se non a fondare, ha certamente contribuito in maniera notevole a consolidare. E, citando l’interessantissima autobiografia pubblicata nel 1986 a cura di un gruppo di lavoro della Fondazione Pellegrini-Canevascini, lo faccio con le sue stesse parole che descrivono molto bene un’attività che stava per iniziare e che veniva affrontata con una forte convinzione: «Verso l’inizio del 1907 io fui assunto dalla Camera del Lavoro come segretario e mi trovai come quello che non sapendo nuotare è stato gettato in acqua e quindi ha dovuto arrangiarsi. Venendo da un piccolo villaggio come quello di Tenero, ero completamente spaesato, disorientato e, non occorre dirlo, anche impreparato alle mie funzioni. Ero però dotato di una convinzione profonda, già allora, circa la verità del socialismo che avevo acquistato attraverso letture assai disorientate perché non ho mai avuto uno che mi dirigesse, attraverso l’esperienza, le osservazioni personali. Avevo davanti a me la miseria, lo sfruttamento degli operai della cartiera di Tenero, degli scalpellini, dei minatori che costruivano l’impianto idroelettrico della Verzasca. Ero soprattutto animato da una grande volontà di riuscire».


Il fatto è la catastrofe di Mattmark. Erano le ore 17.15 del 30 agosto 1965 quando un intero costone del ghiacciaio dell’Allalin, nelle Alpi vallesane, si staccò e precipitò a valle travolgendo il cantiere e seppellendo sotto una montagna di ghiaccio gli operai che stavano lavorando alla costruzione della diga del lago di Mattmark. I morti furono 88 (56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e 1 apolide), che con il loro sacrificio lasciarono 85 orfani. La sciagura si verificò circa un’ora prima della fine del turno lavorativo diurno; fortunatamente, si fa per dire, perché se fosse avvenuta verso l’ora di pranzo i morti sarebbero stati diverse centinaia. Nel processo furono rinviati a giudizio 17 imputati, tutti assolti in primo e secondo grado, e le spese processuali furono a carico delle vittime. Una sentenza che scandalizzò tutti.Tutto questo perché si sappia e il ricordo rimanga vivo.

Pubblicato il 

02.06.15

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