Svizzera

Insieme al certificato elettorale ricevo un codice numerico. Mi collego ad Internet. Lo inserisco in un sito web e con pochi click ho esercitato il mio diritto politico. Il voto elettronico suona facile e da decenni governi e parlamenti si chinano sulla questione di se e come introdurlo. Finora si sono visti molti esperimenti, parecchie marce indietro, un mare di soldi spesi e un oceano di critiche e polemiche.

 

A Berna e nei cantoni ci si lavora dal 2000 e anche da noi ci sono stati tentativi, successi e sconfitte, tanti dibattiti e qualche pasticcio. Negli ultimi due anni il processo ha bruciato le tappe, nel 2017 la conclusione dei lavori del gruppo federale di esperti, la certificazione del sistema proposto dalla Posta Svizzera e la decisione del Consiglio federale di procedere con l’introduzione generalizzata del voto elettronico. L’annuncio ha causato un brivido di inquietudine in chi si occupa di sicurezza informatica e diritti all’epoca della tecnologia diffusa, ma la questione è diventata adesso davvero di attualità grazie ad un’iniziativa depositata poche settimane fa per chiedere una moratoria di cinque anni sull’introduzione dell’e-voting. Il comitato è multicolore, vede insieme Giovani socialisti e giovani Udc, PdL, liberali e partito pirata, informatici e avvocati. La richiesta di prendersi un momento per approfondire rischi e benefici della piccola grande rivoluzione di Stato non si direbbe irragionevole. Perché nonostante la lunga strada fatta finora da Berna e dai cantoni, i dubbi non sono risolti. Il video della Confederazione che dovrebbe tranquillizzarci è disponibile su Internet (http://tinyurl.com/y4pkn3ou) e la butta sull’ironia. Interno domestico, il marito non trova la sua scheda elettorale e stressa la moglie, che spaparanzata sul divano gli dà del “testone” per poi convincerlo a passare al voto elettronico. Lo spot ha il pregio della chiarezza, mostra con un cartone animato come si fa a votare online. Tuttavia non sfugge alla logica della propaganda quando definisce il sistema “fantastico” e afferma che è garantita la sicurezza “a prova di bomba”, terminologia che nessuna persona un minimo competente sul mondo digitale oserebbe utilizzare. Diventa ancora più difficile chiudere un occhio sull’iperbole, dato il quadro complesso in cui l’accelerata di Berna sul tema si viene a collocare. Anzitutto gli esempi internazionali danno da pensare.

 

Per ora solo l’Estonia
L’unico paese del continente Europa ad avere adottato il voto elettronico è l’Estonia. Tutti gli altri hanno lanciato e concluso progetti e test, per infine rinunciare. Troppe le sfide tecnologiche da governare, e troppe le incognite. Sulla decisione di alcuni paesi ha pesato la perplessità sull’invio postale dei codici, limitazione che da noi ha valore relativo, visto che già votiamo per posta. In alcuni casi c’è stata la conclusione razionale, a esperimenti compiuti, che il gioco non varrebbe la candela. I fautori del voto elettronico preconizzano che lo strumento avvicinerà alle urne fasce di elettorato difficili da conquistare, per esempio i giovani. Eppure il rapporto ufficiale dell’esecutivo norvegese, pubblicato dopo l’annuncio della cessazione del progetto nel 2014, sottolinea che nel loro caso l’esperimento non ha mostrato un aumento del numero di persone che votano, ad usarlo persone che già utilizzano il voto per corrispondenza, oltre ad una quota di curiosi, molti dei quali avevano poi velocemente perso interesse per lo strumento. In Germania dal 2009 il voto elettronico è vietato, perché ritenuto discriminatorio: un elettore senza sufficienti conoscenze informatiche non potrebbe sentirsi sicuro che la sua preferenza non sia stata falsificata. Dalle nostre parti abbiamo alle spalle quasi venti anni di processo delle istituzioni, dove alcuni cantoni hanno fatto da battistrada. La prima prova l’ha fatta il canton Ginevra nel 2004, seguito nel 2005 da Neuchâtel e Zurigo, esperienze valutate come positive da un rapporto ufficiale, insiste la Confederazione, eppure è il caso di ricordare che almeno a Ginevra le cose sono state più complicate di quanto il governo vorrebbe farci credere. A novembre 2018 attivisti digitali del Chaos Computer Club (Ccc-Ch) hanno denunciato infatti una clamorosa falla di sicurezza nel sistema ginevrino, «siamo entrati nel sistema come un coltello nel burro». A stretto giro di posta, Ginevra ha annunciato la fine degli investimenti sul sistema, con la ragione che gli altri cantoni coinvolti nel progetto non intenderebbero incrementare il loro contributo all’impresa. L’avvenimento ha beneficiato l’altro sistema da sempre in pole position, tecnologia della spagnola Scytl scelta dalla Posta. Al momento dieci Cantoni possiedono un’autorizzazione del Consiglio federale per la sperimentazione in votazioni federali (BE, LU, BS, AG, SG, VD, GE), Glarona e Grigioni prevedono di farlo entro il 2020.
Mentre il comitato per la moratoria continua la raccolta di firme (https://e-voting-moratorium.ch), il dibattito fra i due campi conosce momenti surreali, come l’argomento curioso proposto dai nostri amministratori federali: «Dopo avere speso decine di milioni di franchi dal 2001, perché mai dovremmo abbandonare un sistema che la popolazione desidera adottare, e che viene giudicato positivamente da chi l’ha provato?». Bene la soddisfazione dell’utente, ma saremo pur d’accordo che la migliore politica prevede un passo indietro o a lato, anche dopo investimenti importanti, se non siamo convinti.

 

Cerca la falla
Dal 25 febbraio al 24 marzo si procederà infine ad un “test di penetrazione”. Il Pit (public intrusion test) chiama alle armi chi di computer si intende perché provi a forzare il sistema. Ci si può registrare qui: https://onlinevote-pit.ch, dai 100 ai 50.000 franchi sono promessi a chi scoprirà una falla di sicurezza piccola o grande. L’operazione costa 250.000 franchi (messi a disposizione da Confederazione e Cantoni), 100.000 per la ditta Scrt che gestirà il progetto. I promotori della moratoria si dicono «costernati per l’esercizio superficiale ed inutile» con Jean Christophe Schwaab, ex consigliere nazionale socialista che definisce il test «una farsa». Sarebbe «una pia speranza pretendere di poter escludere tutti i sistemi di hacking», sostiene Schwaab. Di sicuro chi si intende di informatica è d’accordo su un punto: le cifre promesse ai vincitori sono ridicole. Un hacker che “buchi” nella realtà il sistema di e-voting ha un potenziale di guadagno infinitamente maggiore.

Pubblicato il 

14.02.19
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