Impero e imperialismo

Professor Preve, il libro di Toni Negri e Michael Hardt “Impero” sostiene una tesi fondamentale: «Siamo in un’epoca di globalizzazione integrale e pertanto non esiste più il classico imperialismo». Può far capire – anche ai non esperti di filosofia marxista – cosa si intende? In Negri la parola “Impero” non significa che esiste soltanto una sola nazione imperialistica, cioè l’Impero Americano con i suoi alleati privilegiati. Questo è molto importante: vuol dire che esiste un impero capitalistico transnazionale mondiale, senza più radicamento nazionale. Non bisogna pertanto fraintendere o commettere l’errore di pensare che quando Negri parla di “Impero” parla soltanto dello Stato Statunitense Americano. Generalmente coloro che criticano il libro di Negri, lo fanno affermando che l’imperialismo c’è ancora, che quello americano militarmente è il più forte e dunque asimmetrico con gli altri: questa critica è giusta, ma non è sufficiente; per criticare il pensiero di Negri fino in fondo bisogna conoscerne i presupposti teorici di base. E quali sono i presupposti teorici del pensiero di Negri? In estrema sintesi possiamo dire che Negri usa una concezione errata del concetto di Marx di “modo di produzione”, e rifiuta completamente il concetto di Lenin di “formazione economico sociale”. Questo è il punto fondamentale, che mi obbliga a passare da Lenin. Come è noto, il concetto di Marx di “modo di produzione capitalistico” analizza le tendenze generali di sviluppo del capitalismo, utilizzando soltanto due classi sociali fondamentali, borghesia e proletariato, e nient’altro. Negri sostituisce il bipolarismo delle due classi – borghesia e proletariato – chiamando il proletariato “Moltitudini”, e chiamando la borghesia “Oligarchia transnazionale senza piu’ radici nazionali”. Cento anni fa Lenin non scrisse soltanto il “Che fare” – che è un manifesto per un partito politico – ma in modo profondo ed intelligente propose di usare il concetto di formazione economico sociale, che rende possibile il concetto di alleanze di classe. Si tratta di una novità qualitativa rispetto al pensiero dello stesso Marx. Il concetto di Lenin di “formazione economico sociale”, permette di costituire la teoria della rivoluzione sociale come rivoluzione contemporaneamente economica, politica ed ideologica. Se usiamo soltanto il concetto di “modo di produzione” di Marx, abbiamo soltanto la strategia senza la tattica. Con una formula possiamo dire che Lenin conserva sul piano strategico la contrapposizione di borghesia e proletariato e invece sul piano tattico propone delle alleanze politiche di classe, di più di due classi sociali. Abbiamo quindi un modello teorico con due classi, ed un modello tattico con più classi, questo – a mio parere – è l’essenza teorica dell’eredità di Lenin. Negri rifiuta completamente il concetto di formazione economico-sociale di alleanza strategica fra più classi. È da qui che si può capire l’attuale successo del pensiero di Negri? Sì, Negri piace molto, ed è molto di moda. Può piacere a destra perché rifiuta il concetto di imperialismo – e in questo modo è “politically correct ” – e può piacere anche all’estrema sinistra perché rifiuta il concetto di alleanze di classe, e propone una sorta di radicalismo di moltitudini proletarie. Questa è la ragione per cui Negri piace contemporaneamente agli intellettuali universitari americani da un lato, e dall’altro ad ambienti operai come i “picheteros” argentini, oppure alle “tute bianche” o ai “disobbedienti” italiani. Il punto teorico fondamentale da capire è che il rifiuto di Negri della categoria di imperialismo è totale. Nel suo libro “Impero” egli combatte continuamente questa teoria, perché secondo lui l’imperialismo è legato allo stato nazionale imperialista. che non esiste più. Che radici ha il pensiero filosofico di Negri? Il riferimento filosofico di Negri è di scuola francese quasi al cento per cento: da un lato la teoria del materialismo aleatorio dell’ultimo Althusser – che insiste sull’elemento sradicato, casuale e marginale dell’individuo, senza più patria e radici – e dall’altro la teoria di Foucault e di Deleuze contro il potere. Si tratta pertanto di una riformulazione intelligente del vecchio anarchismo di Bakunin dell’800, chiaramente in condizioni storiche nuove. Oltre i riferimenti filosofici che possono essere non totalmente compresi, l’impressione è che il panorama storico mondiale ci presenta in realtà esperienze differenti di lotta per i diritti dei popoli, con soggetti sociali e politici diversi, tutti con una loro identità; ma non sembra che queste identità si possano dissolvere in un unico soggetto mondiale – per citare Negri – semplicemente “disobbediente”. Negri rifiuta la categoria di imperialismo, sostenendo che nel mondo è già in azione un soggetto collettivo chiamato “Moltitudine”. Negri rifiuta il concetto di formazione economico-sociale sulla base del quale si può ipotizzare una politica rivoluzionaria. Quindi si tratta di una contestazione radicale al marxismo, fatta con un linguaggio apparentemente marxista. In estrema sintesi si tratta di una semplificazione del panorama storico mondiale, che rende impossibile qualunque articolazione della lotta fra soggetti sociali e politici diversi. Come se potessimo chiamare “Moltitudini” i popoli del Nepal o dell’Ecuador – che combattono in condizioni particolari – insieme con la classe operaia europea e americana o con il ceto medio impoverito di alcuni paesi. È l’ennesima fuga in avanti che purtroppo, anziché fare un’analisi della varietà delle forze politiche presenti nella storia, crede di risolvere il problema proponendo un soggetto unico mondiale, solo virtualmente esistente. In estrema sintesi si tratta di uno pseudo-marxismo virtuale alla Baudrillard, una sorta di anarchismo del mondo virtuale. Concretamente cosa significa? Il mondo in cui viviamo è un mondo certamente complesso perché vi sono situazioni di lotta diverse. La classe contadina nepalese lotta per la riforma agraria sotto la direzione di un partito classico marxista-leninista; nelle masse popolari dell’America latina vi sono dei movimenti indigenisti; vi sono dei movimenti operai; vi sono delle realtà nazionali anti-imperialiste interclassiste, come il Venezuela di Chavez, che occorre difendere; vi sono degli Stati come l’Iraq, che occorre difendere dalle guerre completamente, indipendentemente dal giudizio sulla natura sociale del governo di Saddam Hussein. Tutto questo viene azzerato nel libro di Toni Negri, dove avviene una semplificazione selvaggia che cancella la diversità: si parla di diversità ideologicamente, ma poi la si cancella nei fatti. Professor Preve, all’interno di questa teoria, di questo ipotetico modello ciclico dell’evoluzione storica della lotta di classe, a suo avviso, cosa non funziona? L’errore di Negri – a mio avviso – è pensare che la rivoluzione avviene con un soggetto che si espande a macchia d’olio rimanendo omogeneo. Mi spiego: si tratta dell’errore del vecchio operaismo italiano degli anni Sessanta, l’idea che il soggetto rivoluzionario è un nucleo omogeneo che deve soltanto espandersi. Quarant’anni fa era l’operaio massa fordista, trent’anni fa era l’operaio sociale moderno, adesso sono le moltitudini. Il paradigma è sempre lo stesso, è un paradigma che non lascia spazio per la politica, non lascia spazio per la filosofia, non lascia spazio per la teoria, è un paradigma sociologistico. L’errore sta nell’idea che il soggetto è qualcosa di omogeneo, di unitario, dato a priori, che deve soltanto espandersi a macchia d’olio come una pozzanghera mondiale. Lenin, in modo molto più intelligente, aveva capito cento anni fa che non è così, che i soggetti devono essere costruiti politicamente. C’è una via d’uscita? Non possiamo pensare di criticare Negri riproponendo le vecchie dottrine dogmatiche del marxismo storico e semplicemente le varie scolastiche bordighiste, trotzkiste, maoiste senza cambiamento. Quella di Negri è una sfida, la stessa sfida che hanno a suo tempo fatto Bakunin a Marx, Dühring a Engels, e che si è ripetuta nel corso del Novecento. Il rinnovamento della filosofia e dell’economia marxista voluto da grandi pensatori, da Sweezy a Bettelheim, da Bloch a Lukàsc, da Althusser a Gramsci è fallito. Le burocrazie politiche lo hanno impedito, non soltanto dall’alto ma anche da un atteggiamento fideistico-religioso di massa della base. Se noi non utilizziamo la provocazione di Negri per un rinnovamento radicale della teoria rivoluzionaria siamo sconfitti in partenza. Questa mia opinione so che non è condivisa da molti, che in realtà pensano di poter battere le teorie nate intorno all’idea di “Impero” semplicemente riproponendo le vecchie formule.

Pubblicato il

13.09.2002 05:00
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