Cinque anni per aver intenzionalmente trascurato di prendere le necessarie misure di sicurezza. Questa la condanna inflitta con la condizionale al tedesco Jörg Sambeth, direttore tecnico della Givaudan, per l'incidente di Seveso. Con lui l'unica altra persona ad essere stata condannata è il direttore dello stabilimento Icmesa. Un incidente che, se ha avuto così pesanti conseguenze, è perché ai vertici di Hoffmann-La Roche si decise coscientemente di risparmiare sulle misure di sicurezza. Ma i vertici del colosso chimico basilese riuscirono a sottrarsi alla macchina della giustizia italiana, sacrificando e dando in pasto all'opinione pubblica e alla giustizia italiana Sambeth come unico capro espiatorio. Sulla vicenda la regista Sabine Gisiger, dopo un lungo lavoro di ricerca, ha realizzato un film, "Gambit", vincitore del premio della Settimana della critica al Festival di Locarno 2005.

Sabine Gisiger, nel suo film vengono messe in parallelo, nemmeno troppo velatamente, la gerarchia della Germania nazista e i modi di conduzione della Hoffman – La Roche all'epoca dell'incidente di Seveso. Quanto regge il paragone?
La gerarchia della Hoffmann-La Roche non è assimilabile alla gerarchia nazista. Ma è significativo che Sambeth sia fuggito da un sistema autoritario verso la Svizzera sperando di poter vivere in una democrazia effettiva. E che capisca troppo tardi che anche vivere in una democrazia non mette al riparo da certi sistemi. Non è quindi un caso che Sambeth descriva Adolf W. Jann, il presidente del Consiglio d'amministrazione della Hoffmann-La Roche, come un Führer. In tutta la gerarchia infatti c'è un riflesso d'obbedienza condizionato: si obbedisce al volere di Jann ancor prima di aver ricevuto un ordine. Che concretamente significa essere timorosi, non avere coraggio civile, non assumersi le proprie responsabilità. Questo spiega in particolare la gestione dell'incidente di Seveso nei primi giorni, quando Jann era in America Latina e "non lo si voleva disturbare". La questione delle modalità di conduzione delle multinazionali è oggi di estrema importanza ed urgenza, considerato il loro enorme potere. È un dibattito che sta prendendo piede. Negli Stati Uniti si comincia ad ammettere che i lavoratori hanno non solo il diritto ma anche il dovere di denunciare gravi malfunzionamenti in azienda senza timore di ritorsioni.
È vero però che ai vertici delle maggiori imprese negli anni '70 c'era gente cresciuta nell'ideologia nazista, che pure in Svizzera s'era fatta sentire.
In Germania questo è certamente vero. E corrispondeva sia all'esperienza di Sambeth sia all'esperienza comune secondo cui le grandi ditte della chimica tedesca erano rimaste tali e quali malgrado la fine del nazismo. In Svizzera questo non è così vero. Si deve distinguere fra nazismo e tendenza all'autoritarismo. Ma certamente era una generazione di quadri che funzionava molto più di oggi secondo un modello militare.
La chimica svizzera ha avuto a Schweizerhalle, nel 1986, la sua piccola Seveso. Ci fu un modo diverso di trattare l'incidente da parte di Sandoz rispetto a quanto fatto da Hoffmann-La Roche a Seveso?
Chi ha vissuto dall'interno la crisi successiva all'incidente di Schweizerhalle mi ha confermato che la reazione è stata identica: mantenere il segreto, prendere tempo, attribuire la responsabilità ad altri. In questo senso non c'è stato un trattamento diverso di Schweizerhalle perché era in Svizzera rispetto a Seveso. È però vero che negli anni '70 la Svizzera considerava l'Italia come il Terzo mondo: se oggi si va in Cina o in India a produrre perché lì le regole sono molto meno severe, allora per lo stesso motivo bastava andare pochi chilometri a sud di Chiasso. C'erano persone, come si diceva allora, "con cui si può parlare". E agli italiani si era disposti a far correre più rischi che non agli svizzeri. L'aver realizzato l'impianto a Seveso permetteva di risparmiare deliberatamente sulla sicurezza. Ma c'è un'altra importante differenza fra i due incidenti, la percezione nell'opinione pubblica svizzera: Seveso era conseguenza della tipica trascuratezza e del disordine italiani, gli svizzeri, si pensava allora, non c'entravano nulla. Hoffmann-La Roche è stata abile ad insinuare questa idea. Nessuno avrebbe pensato che la causa del disastro di Seveso è stata la decisione di risparmiare sulla sicurezza, investendo non già i 7,5 milioni che sarebbero stati necessari ma soltanto 800 mila franchi: una decisione presa in Svizzera. Schweizerhalle invece era un caso tutto svizzero: qui non c'è stato nessuno cui attribuire colpe.
Non tutti i responsabili dell'incidente di Seveso hanno pagato di fronte alla giustizia. Sambeth ha l'impressione di aver pagato il giusto per la colpa da lui commessa?
Sì. Lui non dice che non doveva essere processato. Ma dice che con il processo a lui si è evitato di processare tutti gli altri che con lui avrebbero dovuto essere giudicati, in particolare Adolf W. Jann e i responsabili della divisione tecnica che avevano deciso di risparmiare sulla sicurezza. Così non si è nemmeno venuti a sapere le reali e scandalose cause della catastrofe. In Svizzera si è soltanto preso atto con soddisfazione che nessuno svizzero era stato condannato. Significativo il titolo della Neue Zürcher Zeitung alla notizia della sentenza d'appello: "Schweizer ohne Schuld", ovvero "Svizzeri senza colpa".
Hoffmann-La Roche ha reagito al suo film?
Ha reagito con il solito silenzio. La strategia è sempre la stessa, invariata nei decenni: tacere sperando che l'affare sia dimenticato. In effetti anche in questo caso le cose stanno andando così, dal loro punto di vista hanno indovinato la strategia. La Hoffmann-La Roche è sempre attenta ai suoi azionisti e sa che, con processi per danno morale ancora aperti in Italia, ogni sua ammissione potrebbe essere usata per costringerla a ulteriori indennizzi.
Qual è la morale di questa vicenda?
Ascoltando la storia di Sambeth mi è sembrato di trovarmi in una storia di Friedrich Dürrenmatt. Viviamo un tempo in cui nessuno è disposto ad assumersi le responsabilità per quanto accade. È un tempo senza eroi. Eppure, come dice Dürrenmatt, gli eroi ci sono: sono quelli che hanno il coraggio di fermarsi, di fare un passo indietro e riflettere. Mi sembra che Sambeth abbia fatto questo passo.

Il film "Gambit" di Sabine Gisiger sarà proposto il 10 luglio alle 22.20 sul primo canale della tv svizzero-tedesca Sf1. La Tsi lo programmerà nel corso dell'autunno nell'ambito della rubrica "Storie" su Tsi1. "Gambit" è inoltre disponibile su dvd, con numerosi extra. Sulla sua esperienza Jörg Sambeth ha scritto il libro "Zwischenfall in Seveso", Unionsverlag, 2004.

Catastrofe a scena aperta

«Catastrofi che non fanno rumore, non spargono sangue, non spezzano vetri, né innalzano macerie. Seveso è una di quelle». Sono anni che Daniele Biacchessi porta in scena spettacoli di teatro narrativo civile, racconta storie per strapparle al silenzio, per restituire loro corporeità e presenza. Giornalista, scrittore (ha pubblicato, tra l'altro, 14 libri d'inchiesta), ma anche autore, regista e interprete dei suoi monologhi teatrali, da tre anni Biacchessi ha deciso di non fermarsi alla scrittura ma di aprire il sipario su alcune delle sue inchieste e accompagnare dentro le storie che racconta le persone che accorrono ad ascoltarlo.
Dopo aver pubblicato un libro-inchiesta sul disastro ecologico dell'Icmesa, "La fabbrica dei profumi" (Baldini&Castoldi, 1995), dal dicembre del 2005 gira con la sua nuova pièce (dal titolo omonimo), «uno spettacolo – per dirla con le sue parole – di teatro narrativo civile contro tutti i crimini ambientali». «Volevo – ci spiega – far uscire le parole dai libri e riportarle alla la tradizione orale del racconto. Ho cominciato a farlo con altre tematiche parlando della Resistenza e delle stragi italiane ("La storia e la memoria"), ripercorrendo la storia dimenticata di due ragazzi uccisi dai fascisti subito dopo il rapimento di Aldo Moro ("Fausto e Iaio, la speranza muore a a 18 anni") o ancora raccontando storie che normalmente non vengono portate sulla scena». Vicende dall'anima scura dove la verità e la giustizia si perdono tra i rovi della disinformazione, dei depistaggi e dei silenzi. Biacchessi dopo averle focalizzate, con un lungo lavoro d'investigazione, le porta in scena diventandone la voce narrante. «Una voce a cui fa da controcanto e sottolineatura la musica che mi accompagna – precisa –, quella del sassofonista Michele Fusiello. Non ci sono quinte, o meglio le mie quinte sono le immagini in movimento proiettate alle mie spalle».
Immagini forti, quelle utilizzate inizialmente da Biacchessi, che stabilivano un parallelismo con la tragedia di Bhopal (India, 1984) ma che dopo qualche mese il regista ha deciso di togliere per non urtare la sensibilità di chi non tollera l'associazione fra i due incidenti. «È assolutamente vero – ci conferma – e l'ho fatto dopo aver sentito ed ascoltato le persone che si stavano occupando del       disastro. C'è stato un ampio dibattito con gli ambientalisti di Seveso per una parte dei quali parlare di catastrofe appariva come una forzatura e un'esagerazione. Da un certo punto di vista non hanno tutti i torti: non ci  sono state vittime dirette e non si potrà mai dimostrare quanti morti ci siano stati in realtà dovuti agli effetti ritardati e diluiti nel tempo della diossina».
Non sente di essere colui che rigira il coltello nella piaga della gente di Meda, Seveso e dintorni, che ha voglia di normalità, di non essere identificata più come "quelli della diossina"? «Quando per un'ingiustizia – riflette Biacchessi – hai subìto un dolore molto forte  non hai molte vie di scampo: o ci convivi trasformandolo in una consapevolezza che diventa battaglia per la verità e la giustizia oppure lo incapsuli in un angolo remoto del tuo essere cercando di rimuoverlo, di far finta che non esista».
Prima di Biacchessi, un altro famoso autore e interprete italiano portò avanti un teatro di denuncia: Marco Paolini, il cui spettacolo "Vajont" venne accolto dagli abitanti della zona disastrata come una catarsi liberatoria. Difficile immaginare una stessa reazione da parte dei sevesini per "La fabbrica dei profumi" che Biacchessi lo scorso 24 giugno ha portato proprio nella "fossa dei leoni", a Seveso, un paese in bilico tra desiderio di rimozione e riscatto dalle ferite di un tempo. "Alla rappresentazione mancavano gli anziani, i protagonisti, ma c'erano ben 400 giovani, il più grande dei quali avrà avuto sì e no 30 anni. Questa folta presenza di nuove generazione rappresenta per me una sorta di trionfo. Il mio desiderio infatti è riuscire ad andare nei luoghi laddove gli eventi che racconto sono accaduti e parlare con la gente del posto, soprattutto con i più giovani che non conoscono questi capitoli della loro storia affinché se ne approprino e un domani li raccontino passando così il testimone ai loro figli e nipoti». Perché laddove si vuole conoscere la verità, laddove ci si pone domande trova terreno ostile chi per ingrassare i propri affari non esita a rischiare la salute, quando non la pelle, delle persone.

La pièce "La fabbrica dei profumi" verrà rappresentata il 10 luglio, ore 14, al Palazzo Fast di Milano (www.retedigreen.com).

Pubblicato il 

07.07.06

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