La disoccupazione vista dallo sportello

Lavoro che cambia, tra rabbia e disperazione

«Più del passato, siamo confrontati con situazioni di rabbia e disperazione, scaturite dalla loro condizione economica, precaria e difficile. Se fino a poco tempo fa erano casi isolati, oggi sono decisamente più frequenti» spiega ad area Amerigo  della cassa disoccupazione Unia di Lugano. Un’impressione condivisa dai colleghi delle altre sedi. «Fronteggiare la rabbia non è per nulla facile perché vedi una disperazione crescente» confida Loredana, da quindici anni al fronte disoccupazione nella sede Unia di Locarno.


Lo sportello diventa sovente il luogo dello sfogo, nel quale il funzionario incarna la legge astratta, incapace di comprendere le difficoltà quotidiane del disoccupato. A volte queste situazioni assumono aspetti paradossali. Loredana e i suoi colleghi hanno speso molte energie affinché il popolo respingesse la riforma della disoccupazione al momento della votazione. Oggi si ritrovano a dover mettere in pratica quella legge, incassando pure le critiche da chi la subisce. In quei casi si cerca di riportare la discussione in termini più razionali, non perdendo mai di vista l’aspetto umano. «Non avendo una preparazione specifica, ci si affida alla propria sensibilità e all’esperienza maturata negli anni di sportello» chiarisce Patrizia della cassa Unia di Biasca.


La rabbia poi s’incanala verso quello che pare ormai diventato lo sport cantonale: il tiro al frontaliere. Tutti i giorni e in tutti gli sportelli disoccupazione, «la colpa è del frontaliere che ruba il lavoro al residente» è la frase ripetuta come un mantra. Sono in pochi, raccontano, a fare il ragionamento: «la colpa è del padrone che ha assunto un frontaliere per pagarlo meno. Non di chi cerca lavoro per vivere». A volte si sente, ma è merce rara.  «Il martellante messaggio dei partiti politici ha dato i suoi frutti. La guerra è tra poveri e non tra il ricco e il povero» conclude amareggiato Amerigo.


Uno degli effetti dei tagli ai sussidi di disoccupazione è l’aumento delle richieste di acconti, che sono passati da eccezione a pratica diffusa. Ancora Amerigo: «Con l’acconto tentano di compensare, soprattuto nei primi mesi, la perdita del 20-30 per cento dal reddito da dipendente, ulteriormente ridotto nel primo mese dai giorni di attesa e magari qualche penalità per non aver iniziato subito le ricerche di lavoro». Per dare un’idea, su uno stipendio di 5.000 franchi, il 70 per cento corrisponde a 3.500. Dedotti nel primo mese una decina di giorni di attesa, l’entrata quel mese corrisponderà a 1.750 franchi lordi.


Comprensibile la difficoltà nel far fronte alle spese correnti con una tale riduzione. Anche se l’acconto non è una strategia vincente, spiegano i funzionari, poiché il problema non si risolve ma si trascina nel tempo. «Per questo li limitiamo al breve termine» dice Loredana.  Purtroppo anche i problemi economici dei disoccupati si trascinano nel tempo. La legge sulla disoccupazione ha un’impostazione più repressiva che di sostegno, analizza Amerigo.

 

Lo scorso anno, hanno riferito le autorità, su 21.758 persone iscritte anche per un solo giorno alla disoccupazione cantonale, 7.245 (oltre il 33 per cento) sono state “punite” con sospensioni d’indennità giornaliere. «Se paragoniamo le sanzioni inflitte a un disoccupato che ha mancato un appuntamento con quelle inflitte a chi ha commesso reati anche gravi, la sproporzione diventa evidente – spiega Amerigo – Per un appuntamento mancato si possono ricevere una decina di giorni di penalità, che corrispondono a circa mille franchi in meno in una situazione economica già compromessa». Una mazzata, insomma. L’impronta repressiva deriva dal principio imperante che la persona sia senza lavoro per sua colpa. Non del sistema economico in quanto tale. «Tutto ciò alimenta il senso di colpa del disoccupato, quando nella gran parte dei casi è invece la vittima» conclude Amerigo.

Lavoro che cambia

Uno dei mutamenti più significativi osservati dal fronte disoccupazione riguarda i rapporti di lavoro. Sono in forte crescita i “guadagni intermedi” retribuiti a ore. Lavoro su chiamata, in termini più crudi: quel flagello sociale per cui il lavoratore, pur percependo pochi soldi per poche ore, deve sempre essere a disposizione quando il padrone chiama. Un obbligo tacito: se non lo fai, addio poche ore.
La vendita e la ristorazione sembrano i settori più colpiti, ma «sono aumentati in tutti i settori, anche nelle case anziani. Succede pure in aziende dove una volta garantivano delle ore contrattuali, mentre ora sono passate su chiamata» annota Patrizia. Una diffusione tale «che oggi il lavoro su chiamata si potrebbe definire strutturale e non più occasionale nel mondo del lavoro» sintetizza Amerigo.


Oltre alle condizioni di lavoro, tra le mani dei nostri interlocutori passano le buste paga. Chiediamo loro se hanno la percezione che i salari siano cresciuti o diminuiti negli ultimi tempi. Né l’uno né l’altro è la risposta. I salari stagnano. «Le cifre sono sempre quelle, sui 3-4.000 franchi» risponde Loredana, che aggiunge: «E nei settori tutelati dal contratti collettivi la paga corrisponde sempre al minimo legale».


I giovani sono una delle categorie più colpite dalla riforma della legge disoccupazione. Oltre ad aver ridotto il periodo d’indennità da 260 giornaliere a 90 a chi ha terminato gli studi, per sei mesi non hanno diritto a nessuna entrata, nessun corso, ma dovranno sottostare a tutti gli obblighi che la legge disoccupazione impone. «Sconcerta che il più delle volte cadano dal pero quando li informiamo» racconta Patrizia. «È frustrante quando si vedono le persone arrabbiate sulla nuova legge disoccupazione e poi scopri che quando si trattava di votare se ne disinteressavano».


La sostanziale riduzione dei giorni di indennità della nuova legge disoccupazione, avrà forse avuto il “pregio“ di abbellire le statistiche sulla disoccupazione, ma nei fatti ha peggiorato il destino di molte persone. Si stima siano circa un migliaio le persone costrette a ricorrere all’assistenza pubblica perché espulse dalla disoccupazione. Essendo l’accesso all’assistenza pubblica molto restrittivo, questo migliaio è solo una parte di chi si è trovato escluso dalla disoccupazione senza migliorare la propria condizione.


La gran parte dei soldi pubblici “risparmiati” coi tagli alla disoccupazione sono stati caricati sulle spalle degli individui che già vivevano in condizioni economiche difficili, costringendoli a bruciare i  risparmi personali. È il caso soprattutto dei cinquantenni, espulsi dal mondo del lavoro perché considerati “vecchi”, radiati dal diritto alla disoccupazione dai tagli imposti dalla riforma e infine esclusi  dall’assistenza perché proprietari di case comperate negli anni 80 o per via di quei risparmi pensati per la pensione. Senza contare quei casi di auto-esclusione dettati dalla vergogna di un’umiliazione. «In assistenza non c’è nessuno felice di andare. Dal nostro ufficio escono tutti a testa bassa» riassume Loredana.


Ma non di sola negatività vive chi lavora agli sportelli della disoccupazione. «Il mio lavoro mi piace – testimonia Loredana – Non ci sono solo gli aspetti negativi. Noi entriamo quasi nell’intimo delle persone, conoscendo nel dettaglio aspetti della loro vita, dei loro cari. S’instaura quindi una relazione molte forte con le persone. E poi, quando ci sono sbocchi positivi, vengono a informarci per condividere con noi la felicità».

Pubblicato il

02.09.2013 10:45
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