Là dove osa il governo Berlusconi

«I sindacati ci forniscano una proposta alternativa, mettendosi d’accordo con i datori di lavoro, e noi ci impegniamo a sostituirla alla nostra». Tradotte dalla lingua padana in italiano, queste parole del ministro del welfare e del lavoro Roberto Maroni vogliono dire quanto segue: noi avremmo voluto trovare con voi una mediazione alla vecchia maniera democristiana, ma i padroni si sono messi di traverso pretendendo tutto quello che avevamo promesso loro nella campagna elettorale e nel programma della Casa delle libertà, compresi i licenziamenti facili. A noi, a quel punto, non restava che obbedire. Ci provino Cgil, Cisl e Uil a convincere la Confindustria. Con gran dispiacere, dunque, il presidente Silvio Berlusconi e i suoi ministri Maroni e Tremonti (industria) hanno riposto nella guaina il fioretto per sfoderare la scimitarra e dichiarare guerra aperta ai sindacati. Nell’incontro di martedì scorso a palazzo Chigi, il governo ha sbattuto la porta in faccia a Sergio Cofferati, Savino Pezzotta e Luigi Angeletti, ribadendo la decisione di affrontare la riforma del mercato del lavoro con legge delega, fuori dal confronto con le parti sociali e fuori dal Parlamento. Al primo punto, naturalmente, c’è la sospensione per quattro anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che garantisce il reintegro nel posto di lavoro di chi viene licenziato ingiustamente in aziende con più di 15 dipendenti (che è la soglia minima perché lo Statuto sia applicabile). Secondo il governo – su ordine dei padroni – un lavoratore potrà essere licenziato perché comunista, o gay, o tunisino, o ebreo, o militante sindacale, o donna rimasta incinta senza aver prima chiesto il permesso aziendale. Se venisse riconosciuta l’illegittimità del licenziamento verrebbe meno, sempre nelle intenzioni del governo, l’ordine di reintegro sul posto di lavoro, basterebbe pagare il disturbo alla vittima di turno. O meglio, si potrebbe addirittura evitare il ricorso al giudice, che come si sa è un nemico egli stesso, e liquidare in quattro e quattr’otto la vertenza con un arbitrato, cioè con un assegno. Questa volta Berlusconi è riuscito a far perdere la pazienza di tutte le organizzazioni sindacali. Il miracolo, quello no, non è riuscito a farlo: chi si aspettava una risposta unitaria ma determinata, secca contro il governo liberista è rimasto deluso: lo sciopero generale non è stato proclamato. Solo uno scioperetto, o sciopericchio che dir si voglia, un mezzo sciopero generale, insomma. Tutte le categorie dei lavoratori incroceranno le braccia per 2 (dicasi due) ore, e neppure insieme ma a turno nei giorni che vanno dal 5 al 7 di dicembre, con assemblee nei luoghi di lavoro. Questo è stato il massimo possibile di mediazione per mantenere il carattere unitario della protesta, senza rompere con la Cisl di Pezzotta che ha posto il veto a uno sciopero generale vero e proprio, che avrebbe avuto – ovviamente – un segno politico contro il governo Berlusconi e avrebbe messo in moto una reazione a catena. Fino al punto di scuotere – forse - la sonnolenta opposizione del centrosinistra. La Cgil era orientata verso una risposta decisamente più radicale, ma ha deciso di immolare la radicalità sull’altare di un’unità che è sempre più di facciata. E la parola d’ordine che sta passando, pur tra le critiche della componente di sinistra, all’interno del maggior sindacato italiano, è che l’appuntamento di inizio dicembre non è che il primo passo verso una mobilitazione generale, contemporanea, di tutte le categorie dell’industria, dei servizi e del pubblico impiego con tanto di manifestazione a Roma. Insomma, una spallata contro il governo Berlusconi. Ma queste, fino a prova contraria, sono solo buone intenzioni, quel che c’è di certo non è che un mezzo sciopero. Su un aspetto delle comunicazioni di Berlusconi ai sindacati neppure le Cisl ha potuto prendere tempo. Si tratta della decisione di impedire di fatto il rinnovo contrattuale di oltre tre milioni di dipendenti pubblici. I soldi messi a disposizione in finanziaria non consentono neppure il recupero dell’inflazione. E il presidente del consiglio con il suo ministro Maroni, martedì, ha risposto con l’ennesimo diniego alla richiesta sindacale di riaprire concretamente il confronto. Bisogna capirlo, il cavaliere di Arcore: per onorare gli impegni assunti con i padroni, che prevedono sgravi fiscali e regalie alle imprese, i soldi da qualche parte bisogna pur tirarli fuori. Da dove, se non dalle tasche dei lavoratori dipendenti? Di conseguenza, il 14 dicembre lo sciopero del pubblico impiego sarà unitario e di otto ore. Piccole lotte crescono. Ma cresce contemporaneamente, e ben più rapidamente, l’aggressività del governo delle destre italiane. Non è un caso che la decisione di rompere con i sindacati Berlusconi l’abbia presa il giorno stesso in cui sono stati resi pubblici i risultati elettorali delle elezioni siciliane: la Casa delle libertà ha sbaragliato in tutte le città dell’isola il centrosinistra, umiliando l’Ulivo a Palermo che per 10 anni era stata amministrata da Leoluca Orlando. Tre giorni prima della débâcle, dando prova del radicamento e della preveggenza del suo partito, il nuovo segretario dei Ds Piero Fassino aveva promesso: «Riconquisteremo la Sicilia, poi Milano». Mai nella storia elettorale dell’isola le sinistre erano scese così in basso.

Pubblicato il

30.11.2001 05:00
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