La fiaba si fa vera

Lunedì prenderanno avvio a Soletta le ormai tradizionali giornate del cinema svizzero (cfr. riquadrato sotto). Un cinema che nel 2006 ha avuto il vento in poppa e che anche in Ticino sembra dare segnali di risveglio. Tanto che da agosto a dicembre sono state girate ben tre produzioni ticinesi ("Marameo" di Rolando Colla, "Roulette" di Mohammed Soudani e "Fuori dalle corde" di Fulvio Bernasconi"). E poco prima di Natale sono finalmente cominciate le riprese anche del primo lungometraggio di fiction del trentacinquenne Misha Györik, colui che molti considerano il più grosso talento del cinema ticinese. Si intitola "Le valli della paura" ed è tratto da quattro racconti dello scrittore romagnolo Eraldo Baldini. Nel cast, fra gli altri, gli attori Teco Celio, Stefania Rocca e Jean-Luc Bideau, la scenografa Petra Barchi e Villi Hermann quale produttore esecutivo. Prodotto dalla luganese Riforma Film di Marco Müller assieme alla bolognese Downtown Pictures e all'ungherese Focus Film, il lavoro di Györik è sostenuto da Rtsi e Cantone Ticino, ma non dalla Confederazione. Le riprese, suddivise in diverse fasi, dureranno tutto l'anno, in parte in Ticino (esterni), in parte in Ungheria (interni). Del progetto e della difficoltà di realizzarlo parliamo in questa intervista con Misha Györik.

Misha Györik, da tempo si parla del suo film, ma solo ora sono iniziate le riprese. Perché c'è voluto così tanto affinché il progetto partisse?
L'idea è nata tre anni fa con Marco Müller, che mi ha fatto conoscere Eraldo Baldini. Siamo in ballo da molto tempo perché "Le valli della paura" è un film evocativo, d'atmosfere, quindi molto ricco a livello fotografico e di scenografie, dunque molto costoso. Per questo la ricerca dei finanziamenti ha richiesto molto tempo. La Confederazione per due volte ha rifiutato di sostenere il film, senza che se ne capisca il motivo, perché è un film girato in Ticino e io sono un regista ticinese. Il doppio rifiuto è stato spiegato dalle due commissioni in maniera molto vaga e non chiara. Questo è costato almeno due anni, perché i soldi che non ci ha dato la Confederazione abbiamo dovuto andarli a cercare altrove. Per finire li abbiamo trovati in Ungheria. L'Ungheria è un po' la mia seconda patria, un paese povero rispetto alla Svizzera, però ha una grande tradizione ed è molto ricco quanto all'aspetto artigianale del fare cinema, un aspetto importante in questo film.
In che senso?
"Le valli della paura" è un'opera visionaria ma artigianale. Useremo in modo limitato dalle tecnologie moderne, in particolare quelle digitali. Faccio un esempio. A un certo punto ci serve un maiale nero come metafora del diavolo. Per le riprese non potremo sempre usare un maiale vero. Faremo ricorso anche a dei modellini che possano muoversi, modellini che non saranno del tutto realisti, proprio per farci entrare nella dimensione di fiaba. I vecchi film per i bambini fatti con effetti speciali artigianali per nulla realistici funzionavano perfettamente, e avevano una carica poetica tutta loro. A condizione che fossero sorretti da una storia forte.
Per tornare alla questione dei finanziamenti, ritiene che Berna avrebbe dovuto tenere in maggior conto il fatto che lei è un regista ticinese e che il film è prodotto in Ticino, e che quindi incontra oggettivamente difficoltà maggiori ad entrare in produzione che non per esempio a Zurigo?
Non voglio far polemica e non sono nemmeno molto informato sui criteri di scelta delle commissioni. Però io stesso sono stupito che si stia girando in Ticino, un fatto che per il cinema succede raramente. Altri film ticinesi per ragioni di finanziamenti sono costretti a girare fuori dal Ticino, in particolare in Italia (è il caso di "Fuori dalle corde" di Fulvio Bernasconi, di cui si sono da poco concluse le riprese a Trieste, ndr). Marco Müller ha l'ambizione di creare una macchina capace di fare cinema in Ticino, di formare dei nuovi tecnici capaci e preparati nella scenografia, nell'illuminazione ecc… Questa gente già c'è oggi in Ticino, si tratta di persone entusiaste di fare cinema. Se si porta qui la possibilità di girare queste persone possono migliorare le loro capacità, e dunque in prospettiva far nascere una piccola industria. Perché il Ticino ha un potenziale, può essere un luogo interessante per produrre cinema.
Del resto il Ticino è un territorio ideale per le riprese.
Il Ticino presenta molti vantaggi per fare cinema. In un piccolo territorio presenta luoghi molto variati, dal lago alla montagna, dalla città al villaggio. In questi luoghi poi si trovano scenari fantastici, che con questo progetto sfruttiamo ampiamente: basti pensare alla val Bavona, un ambiente che rimanda immediatamente alla lotta dell'uomo contro la natura e che, vista adesso d'inverno, sembra un set cinematografico del "Signore degli anelli". Ma tutte le nostre valli offrono una dimensione fantastica che è lì, pronta da essere sfruttata per il cinema. E il mio progetto si basa proprio sull'idea di ricostruire un mondo fiabesco utilizzando le valli ticinesi e sfruttando la natura e l'ambiente rurale per ottenere un effetto evocativo.
Il progetto è grande, ambizioso e costoso. Si sente sotto pressione?
L'unico vantaggio a non aver girato due anni fa è che ho avuto il tempo di prepararmi psicologicamente. Su questo progetto si spendono grosse cifre: le riprese sono molto complesse, per necessità narrative e non per sfizio. Ma non ci penso, non voglio mettermi sotto pressione.
Ma per anni si è parlato di lei come la grande promessa del cinema in Ticino. Ora è atteso al varco...
Alla grande promessa non ci penso. Ora ho la grande fortuna di poter fare qualcosa. Poi vedremo cosa ne risulterà. Farò del mio meglio perché è nel mio interesse e perché lavoro con degli ottimi collaboratori, in un ambiente molto stimolante. E sto cercando di mettere da parte la rigidità che forse avevo quando facevo i miei corti ed ero un po' più giovane. Ho capito che il cinema è un'esperienza corale, che io sono solo il regista e che questa non è che una funzione. La cosa importante è la storia e la visione del film: ed è qui che entra in gioco la mia responsabilità, nel sapere coinvolgere tutti in questa visione che è nata non solo da me ma anche da Müller. È lui, che ama molto Baldini, che ha scelto di portarne in Ticino i racconti, lasciandomi poi la scelta su quali girare e sulla forma della sceneggiatura.
Cosa l'ha fatta tener duro in questi anni di attesa?
Ho avuto delle intuizioni che mi hanno tenuto legato al progetto. Avevo fatto dei cortometraggi che avevano avuto successo e avrei potuto cavalcare l'onda di quel successo per cominciare a girare dei lungometraggi. Ma sapevo che avevo bisogno di prepararmi, perché un lungometraggio è un'avventura bella ma rischiosa. Ho avuto bisogno di questo tempo. Senza questo progetto però non sarei più qui, sarei altrove in Europa a cercare di lavorare. Dopo aver studiato all'estero (Budapest, Los Angeles) sono tornato in Ticino perché avevo voglia di lavorare e mi sono buttato sul documentario. Ma sempre con la speranza di far cinema. E sapevo che un'esperienza di cinema non d'autore ma più artigianale, più vicina alla mia sensibilità, prima o poi sarebbe arrivata. Però ho dovuto crederci, molto. Eppoi sapevo che il cinema da fare è complesso e costoso, e prima che ti si aprano certe porte occorre lavoro e pazienza. Abbandonare tutto avrebbe voluto dire ricominciare daccapo altrove. Qui qualcosa era già cominciato e sarebbe stato peccato non provare e portarlo fino in fondo. Anche perché questo progetto nel frattempo aveva occupato tutte le mie idee. Però adesso siamo qua, l'avventura sta incominciando.

Pubblicato il

19.01.2007 03:30
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