La finanza gonfiata e l’economia reale

Sembra che tutto sia tornato a girare bene nell’economia. Navigando tra rapporti di organismi internazionali, di istituti di ricerca, di dichiarazioni di “guru” dell’economia e della finanza si rilevano però disincronie nella diagnosi. Chi, scottato dalla figuraccia di non aver previsto la crisi precedente, è prudente e avanza qualche punto interrogativo a mo’ di paraculo (ve l’avevo detto). Chi, volendo diffondere fiducia ed ottimismo,  giura che è la svolta storica, confermata dall’euforia delle Borse. Chi, infine, non esita a rimanere Cassandra perché i punti deboli sono ancora troppi, la strada è sempre stretta, i parapetti (le regole) posti negli ultimi anni sono fragili ed oltretutto si sta ritornando a una nuova folle deregolamentazione (v. Trump, ma non solo). Può poi lasciare perplessi o sull’attenti quando si ascolta l’economista capo del Fondo monetario internazionale, Obstfeld, pronosticare che «la prossima recessione arriverà più presto del previsto e sarà più difficile da risolvere»: lo dice perché la sente già arrivare o vuol far capire che non è proprio il caso di deregolamentare e ritornare alle precedenti follie?


Economisti e finanzieri hanno degli strumenti che misurano la febbre, degli “indici” che hanno la pretesa o di avvertire sulle fragilità o di allarmare sulle minacce nascoste. Il discorso si fa tecnico. Si può tentare di semplificare con due indici principali.


C’è chi sorveglia come il latte sul fuoco il rapporto tra la capitalizzazione borsistica totale (la somma di tutti i capitali che muovono la Borsa-faro) e il prodotto interno lordo americano (la ricchezza prodotta). Quel rapporto è oggi al di sopra del 150 per cento, un primato. Significa che il mercato borsistico è molto sopravvalutato, che l’inflazione è lì (insomma, c’è uno scompenso netto tra finanza ed economia reale). L’ultimo primato risale al 2000, quando scoppiò la bolla di Internet con la conseguente crisi. Si dovrebbe dedurre che se le Borse si gonfiano a dismisura, come ora, non è detto che siamo in buona salute, come si vuol far credere.


Un altro indice (escogitato da un premio Nobel, Shiller, che ha scritto un libro intitolato “Esuberanza irrazionale”) mette a confronto il corso delle azioni con gli utili realizzati dalle imprese.  Oggi non ci dovrebbero essere problemi perché quell’indice dà 26 punti, mentre era nientemeno che a 126 prima che scoppiasse la famosa bolla dei “subprimes” (il crollo dei valori immobiliari per eccesso di credito ipotecario). Il premio Nobel sostiene però che il confronto va fatto su un intero ciclo, sugli utili medi dei dieci anni precedenti. E il confronto porta allora alla vigilia del terribile lunedì nero del 1929: allora l’indice era a 30, oggi siamo a 34,75. Che cosa possiamo attenderci?


In queste analisi c’è perlomeno una certezza: i prezzi degli attivi (dei titoli, dei corsi, dei fondi ecc.) dimostrano di non avere una connessione diretta con l’economia reale. La grande immissione di soldi per superare la crisi ha provocato l’indigestione della finanza più che la salute dell’economia. Il peggio è che questa esuberanza non tende a calmarsi. Si calcola che ci sono in giro ancora 1.100 miliardi di dollari di cash che chiedono di essere investiti in quel modo. Donald Trump sta rimettendola in moto, soprattutto se le sue-nostre multinazionali, graziate dal suo fisco, investiranno l’80 per cento dei maggiori profitti sotto forma di dividendi e di riacquisto di azioni, riutilizzati ancora per gonfiare  finanza e paperoni mondiali come lui.

Pubblicato il

08.02.2018 10:52
Silvano Toppi
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