L'anniversario

Mattmark è il nome di un grande lago artificiale in cima alla Saastal (la valle di Saas-Fee), nel canton Vallese. Ma è anche il nome con cui si ricorda la sciagura capitata nel 1965, quando una grande massa si staccò dal ghiacciaio Allalin e travolse le baracche degli operai addetti alla costruzione della diga destinata a creare quel lago.

 

Quest’anno ricorre quindi il 50° anniversario di quello che fu il più grande incidente sul lavoro mai conosciuto in Svizzera. Un dramma che non va dimenticato, soprattutto per ciò che questa, come numerose altre sciagure simili, rappresenta nella storia del lavoro e della migrazione operaia in Europa. Le iniziative e le manifestazioni in programma sono numerose.


La tragedia di Mattmark ha segnato un punto di svolta e di presa di coscienza dei politici e degli imprenditori svizzeri, che, sotto l’impulso dei sindacati, hanno adottato in seguito un complesso di misure fondamentali in tema di sicurezza sui cantieri. Da allora sono migliorate notevolmente la prevenzione degli incidenti e l’organizzazione logistica nei cantieri, con maggiore attenzione alla sicurezza e la tutela dei lavoratori. Per rendersene conto, basta rievocare quello che accadde 50 anni or sono a Mattmark.


Per la costruzione della diga erano occupate oltre 600 persone, le quali normalmente alloggiavano in un vasto spiazzo che ospitava anche gli uffici dell’impresa, a 6 km di distanza dal cantiere vero e proprio. Il quale era stato invece allestito ai piedi della diga, proprio nel cono di “scivolamento” del sovrastante ghiacciaio. Questa decisione era stata presa per facilitare il lavoro, poiché lo sbarramento (370 metri di base, 120 di altezza) veniva costruito non interamente in cemento armato, ma soprattutto con un enorme riempitivo (oltre dieci milioni di metri cubi) di materiali naturali prelevati sul posto dalle morene formate dal ghiacciaio.


I lavori procedevano a ritmo serrato, anche di notte. Ma un pomeriggio, alle 17.15 del 30 agosto, un’imponente massa di due milioni di metri cubi si staccò dal ghiacciaio e precipitò sul cantiere. 88 lavoratori persero la vita, di cui 56 italiani, 24 svizzeri, 3 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. In pochi attimi vennero seppelliti sotto una ventina di metri di ghiaccio e detriti, e il boato prodotto dallo spostamento dell’aria fu udito a chilometri di distanza. Dei presenti sul cantiere si salvarono in pochi; ma per fortuna la sciagura non avvenne durante un cambio di turno, perché il numero delle vittime sarebbe potuto raddoppiare.


La catastrofe suscitò grande emozione in tutta Europa, e numerosi furono i messaggi di cordoglio e di solidarietà. Il 9 settembre si tennero i funerali a Saas Grund, mentre la Catena della Solidarietà e il Soccorso operaio svizzero raccoglievano le tante donazioni. In prima fila, tra i donatori, il Canton Vallese e la Federazione dei lavoratori dell’edilizia e del legno (Flel). Quali cause della tragedia vennero evocati, nell’immediato, il destino, la catastrofe naturale, la “forza della montagna”. Poi si cominciò a riflettere sul’efficacia delle misure di sicurezza adottate (o non adottate). Che il ghiacciaio dell’Allalin fosse instabile era noto, ma certo non si poteva prevedere quel che sarebbe accaduto. Probabilmente sarebbe occorsa una maggiore prudenza nel collocare le baracche degli operai, piazzate proprio sotto il ghiacciaio, in una zona ad alto rischio.


L’impresa committente (la Elektrowatt), la Suva e le stesse autorità cantonali del Vallese vennero messe sotto pressione. Ma in generale prevalse, anche da parte sindacale, una certa cautela nel formulare accuse. Voci molto critiche vennero invece dall’Italia, dove era ancora fresco il ricordo di un’altra imponente sciagura, quella della frana nel bacino idroelettrico del Vajont, che nel 1963 provocò la morte di quasi duemila persone. Alla fine, la lunga inchiesta penale portò nel febbraio del 1972 davanti al tribunale distrettuale di Visp diciassette imputati, tra cui direttori, ingegneri e due funzionari della Suva. Tutti assolti, sostanzialmente perché i giudici ritennero che la possibilità di una valanga di ghiaccio fosse troppo remota per poter essere presa ragionevolmente in considerazione. Nel settembre dello stesso anno, il tribunale cantonale di Sion confermò in appello la sentenza assolutoria di primo grado.


Le reazioni alla duplice assoluzione furono vivaci. In Svizzera si fece sentire soprattutto la voce del presidente della Flel, Ezio Canonica, che in Consiglio nazionale denunciò la prassi dei blandi controlli della Suva e la volontà di tenere bassi i costi, con grave rischio per la salute e la vita dei lavoratori. Ma in Italia le critiche dei media, dei sindacati e della politica furono molto dure, soprattutto perché i familiari delle vittime vennero obbligati a pagare la metà delle spese processuali. E mentre il governo italiano si dichiarava pronto a farsi carico di quelle spese, la giustizia vallesana non prese neppure in considerazione una loro remissione. Tuttavia, in seguito alla tragedia di Mattmark (e di quella successiva, nel 1966, di Robiei, in Valle Maggia, dove persero la vita 17 persone, di cui 15 italiani) le misure di prevenzione vennero molto migliorate e si costituì una commissione italo-svizzera per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia.

Pubblicato il 

23.04.15
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