La pensione, un miraggio italiano

Dicono i padroni: i conti sono in rosso, la nave Italia rischia di finire nelle secche e di sfasciarsi trascinandoci tutti a fondo. Dunque, bisogna porre rimedio allo stato di crisi. Come? Nell’unico modo che gli imprenditori e le loro associazioni di categoria riescono a immaginare: tagli alla spesa sociale e riforma delle pensioni, innanzitutto, poi rendendo più competitivi i nostri prodotti attraverso sgravi fiscali alle imprese e flessibilità massima dei lavoratori. I tagli al welfare state il governo Berlusconi li sta già facendo, a partire dalla scuola e proseguendo con la sanità. In quanto alla flessibilità, poi, la legge 30 che rivoluziona il mercato del lavoro rende l’Italia il paese più flessibile e i lavoratori i più precari d’Europa. Soffermiamoci allora sul sistema pensionistico che Confindustria e buona parte delle forze di destra chiedono al governo di riformare, per la quarta volta in una decina di anni. La vita media degli italiani s’è allungata, ci spiegano, mentre il saldo demografico è negativo e dunque bisogna lavorare di più e più a lungo, spostando in avanti l’età pensionabile per aumentare il periodo di versamento dei contributi, riducendo al tempo stesso l’aggravio del sistema pensionistico sui conti pubblici. Come rispondere a questa che a prima vista potrebbe sembrare una richiesta ragionevole? Spiegando che ragionevole non è, per mille motivi. Innanzitutto, bisogna sapere che i conti dell’Inps (Istituto nazionale previdenza sociale, l’ente preposto al pagamento delle pensioni) non sono in rosso, almeno per quanto riguarda la parte previdenziale e ciò grazie alle tre riforme già attuate e che produrranno progressivamente nei prossimi anni i loro benefici. Il fatto è che l’attacco alle pensioni, infiorettato con motivazioni ideologiche e giustificato come detto sopra, è finalizzato dal governo al raggiungimento di un obiettivo molto più terra-terra: fare cassa, tirare su un po’ di soldi freschi borseggiando i soliti noti. Lavoratori dipendenti e pensionati, i secondi per esempio bloccando forzosamente le finestre d’uscita e cioè rinviando di sei mesi o un anno l’uscita dal lavoro. L’effetto di queste minacce è evidente e sortisce effetti opposti a quelli desiderati: la continua minaccia di vedersi allungati i tempi della pensione genera insicurezza e l’insicurezza rispetto al futuro fa sì che anche chi sarebbe disposto a lavorare ancora qualche anno, appena matura le condizioni se ne scappa a gambe levate. Soprattutto se si ipotizzano disincentivi al pensionamento, come ha in mente almeno una parte del governo Berlusconi. Certo, è vero che l’invecchiamento della popolazione, il saldo demografico negativo e il susseguirsi di sconti fiscali e contributivi ai padroni, hanno conseguenze economiche negative per il paese. Ma è anche vero che la situazione di cassa potrebbe essere più rosea se il governo italiano – in buona compagnia in Europa – non avesse scelto una politica restrittiva di quote sull’ingresso di lavoratori migranti. Persino gli imprenditori, in particolare quelli del Nordest, denunciano le conseguenze della legge Bossi-Fini sull’immigrazione che chiude le frontiere, lasciando inevasa la domanda di forza lavoro. Più immigrati in regola assunti dalle aziende italiane contribuirebbero a rimpolpare le casse dell’Inps, riducendo al tempo stesso fenomeni di irregolarità, lavoro sommerso e lavoro nero. Ma di questo il governo non si preoccupa, piuttosto a Palazzo Chigi si stanno ingegnando per colpire chi con la precedente riforma si è visto finalmente riconosciuto un trattamento pensionistico “di riguardo”. Il riferimento è a chi ha svolto lavori altamente nocivi e pesanti, per esempio a contatto con l’amianto. Si ipotizza addirittura la cancellazione dal computo degli anni lavorati del periodo di maternità. Ma c’è un altro aspetto che chiama direttamente in causa gli imprenditori, quasi paranoici nella loro denuncia del sistema pensionistico italiano fino a pretendere dal governo un sostanziale allungamento del periodo lavorativo. È un fatto che la crisi industriale italiana, di cui sono corresponsabili i padroni, sta determinando conseguenze pesanti sull’occupazione. I più colpiti sono i lavoratori meno giovani della grande industria. Come affrontano il problema gli imprenditori? Buttandoli fuori con lo strumento del prepensionamento: uno scivolo fino a sette anni, in poche parole uomini e donne cinquantenni, ancora in grado e con la volontà di produrre, vengono espulsi dal ciclo lavorativo e costretti a tornarsene a casa in anticipo, gravando sulle casse dello stato. E siccome avranno pensioni da fame, finiranno per fare lavoretti in nero, o magari addirittura lo stesso lavoro di prima sotto forma di consulenze. Le nuove leggi sul mercato del lavoro consentono questo e altro, con il conseguente crollo dei contributi versati. Siamo così al paradosso che chi pretende di farci lavorare fino 65 o meglio 70 anni si libera dei cinquantenni scaricandoli sulla collettività, socialmente ed economicamente. Per concludere, andiamo a guardare da vicino il presunto “scontro generazionale” che motiverebbe eticamente la richiesta di riforma del sistema: i padri che vogliono andare in pensione troppo presto smettendo di pagare i contributi cancellano la possibilità per i figli di avere a loro volta una vecchiaia garantita. Padri garantiti e figli precari. L’ufficio studi della Cgia (la confederazione degli artigiani) ha recentemente svolto una ricerca sulla precarietà da cui si evince, senza se e senza ma, che i più precari non sono i giovani bensì i lavoratori ultraquarantacinquenni, espulsi e poi reimmessi al margine dei processi con contratti a tempo determinato e iperflessibili. Perché i padroni, sia detto con chiarezza, utilizzano le crisi e la nuova legislazione del mercato del lavoro per accaparrarsi “carne” giovane e buttare nella spazzatura i limoni spremuti. O continuano a spremerli, ma pagando per loro meno contributi. È il gatto che si morde la coda, e di code e di vite, il nostro gatto non ne ha sette, ma una soltanto. Martedì si sono incontrati a Roma i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil per approntare un piano di mobilitazioni nel caso in cui, superate le risse interne ai partiti del centrodestra, il governo decidesse di dare davvero l’affondo contro le pensioni. La Cgil sembra determinata a chiamare i lavoratori allo sciopero generale, in modo possibilmente unitario. Sempre che nella Cisl e nella Uil non prevalga ancora una volta la vocazione governativa, com’è avvenuto in occasione della firma con la Confindustria e palazzo Chigi dello scellerato Patto per l’Italia. In questa seconda ipotesi, sarebbe la Cgil, ancora una volta da sola, a guidare la protesta.

Pubblicato il

19.09.2003 03:30
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