La resistenza delle donne

Non è un caso, credo, che alcuni mesi fa sia stato ripubblicato per Bollati Boringhieri La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Il libro, uscito nel 1976 presso una casa editrice ormai scomparsa, era stato accolto con grandi consensi ed entusiasmo. Letto e riletto, fotocopiato infinite volte per sè o per altre. La resistenza taciuta, come racconta Anna Bravo nella sua prefazione alla recente riedizione, era anche figlia del femminismo: nasceva dal desiderio di tentare un’indagine nuova, per certi aspetti anche imbarazzante, della storia della resistenza. Per trent’anni si era parlato genericamente della presenza femminile nella resistenza nei termini di un contributo sì prezioso, ma fondamentalmente subalterno e secondario. Ed ecco che grazie alla narrazione autobiografica di alcune partigiane viene testimoniata l’essenzialità e la qualità diversa della partecipazione femminile alla resistenza. Da questi documenti risulta con evidenza che senza le donne la resistenza non avrebbe potuto esserci. Nella massima parte però ledonne, pur rischiando tanto quanto gli uomini, scelsero di non impugnare le armi, partecipando a pieno titolo alla resistenza ma dandole il senso più di resistenza civile che di guerra di resistenza. Per vedere che le donne nella storia della resistenza c’erano state e da protagoniste bisognava però saper rinunciare a quel criterio interpretativo della realtà storica che mette al primo posto le armi e la politica insenso stretto, e che mette ai margini ogni altro agire.(Basti pensare che per essere dichiarato partigiano bisognava aver portato le armi almeno tre mesi in una formazione regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e aver preso parte ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio). Una speciale incapacità nel vedere ciò che le donne sono e fanno sembra perseguitarci anche oggi. Mi riferisco in particolare alla crescita enorme dell’occupazione femminile che si è avuta negli ultimi decenni e che invece di essere sottovalutata meriterebbe di essere interrogata senza insistere, come di consueto, nel paragone con le posizioni maschili nel lavoro. Brevemente. Da più di dieci anni in Europa (Svizzera compresa) l’aumento della popolazione attiva si basa sul fortissimo incremento dei tassi di attività femminile. In particolare le donne, grazie alla loro crescente scolarizzazione, sono entrate in quei settori che in in questi anni hanno conosciuto una forte evoluzione come il terziario avanzato e i servizi. Il filosofo Gilles Deleuze ha chiamato questo processo “divenire donna del lavoro”. Le filosofe della comunità Diotima di Verona si sono espresse in termini di “rivoluzione inattesa”. Il sociologo Manuel Castells ne ha analizzato la dimensione globale (la femminilizzazione del lavoro non riguarda solo il cosiddetto mondo sviluppato) mettendolo in relazione con la modificazione del rapporto tra i sessi, e la crisi della famiglia patriarcale. Ci sono delle similitudini interessanti tra le modalità in cui le donne hanno partecipato alla resistenza e la condizione femminile attuale nel mondo del lavoro. La partecipazione delle donne alla resistenza potrebbe essere significativamente descritta facendo ricorso alle parole che ci servono per parlare delle nuove forme del lavoro contemporaneo, come un agire polivalente, il dispiegarsi di una forza-lavoro polioperativa, caratterizzata da grande adattabilità e flessibilità.«In questo fare e in questo organizzare – racconta la partigiana Maria Rovano (Camilla) – io ero tutto e ero niente». Come staffette, le donne facevano tutto il lavoro di comunicazione e di informazione: garantivano (rischiando tantissimo) una rete fittissima di collegamenti senza la quale l’organizzazione non avrebbe potuto funzionare. Portavano e distribuivano oltre ai viveri e agli indumenti per i partigiani, il materiale di propaganda clandestino. Trasportavano armi e munizioni, e nello stesso tempo si prodigavano per risolvere anche le questioni private dei partigiani. Organizzavano il soccorso e il servizio di assistenza ai feriti nelle case più sicure e negli ospedali. Nelle fabbriche organizzavano sabotaggi e promuovevano scioperi. Facevano manifestazioni (anche esclusivamente femminili) contro il caro vita, assalti ai magazzini dei viveri, cercando di svolgere delle azioni che fossero in favore anche delle famiglie più bisognose. Inoltre o per iniziativa dei gruppi di difesa della donna o di singole, le partigiane si occupavano di identificare i cadaveri, li componevano, avvertivano e assistevano i famigliari dei caduti, piangevano con loro i morti. Tutto ciò vuol dire che le partigiane, mentre rendevano possibile la resistenza, operavano per garantire la continuità non solo materiale ma anche simbolica dell’intera comunità. Il fatto per esempio, importantissimo, che le partigiane facessero in modo che il lutto potesse essere condiviso significava tenere in vita pratiche di relazioni umane civili in piena guerra, e con ciò alimentare il pensiero che non tutto era insensato e che la guerra avrebbe avuto una fine. (Perché una cosa abbia fine bisogna essere capaci di immaginare che abbia una fine.). La partigiane che si sono raccontate ne La resistenza taciuta sono tutte concordi nel dire che tutto quello che hanno fatto è stato ben poco riconosciuto. D’altra parte tutte hanno dichiarato di non essere state interessate a ricevere dei titoli onorifici, a ottenere delle posizioni di comando, o a fare carriera (con buona pace del femminismo di stato). Si aspettavano però altre, diverse, forme di riconoscimento. Va da sè che se è una logica militare a prevalere (e che va di pari passo con l’idea che la politica sia solo quella che si fa nei partiti), non si può descrivere l’agire delle donne nella resistenza se non come il naturale prolungamento, al di fuori del privato, dei classici ruoli di assistenza e di cura. La stessa cosa vale pressappoco per quella che è la posizione attuale delle donne nel mondo del lavoro. Se abbiamo come punto di riferimento qualitativo il lavoro maschile, se ragioniamo secondo un modello ideale, definito astrattamente per legge, di suddivisione perfettamente paritaria tra uomini e donne in ogni contesto lavorativo, rischiamo di non vedere il mutamento epocale che è avvenuto in questi anni nella condizione lavorativa femminile. Sarebbe meglio, invece di attardarsi a ragionare nei termini di “le donne non hanno ancora” (l’uso dell’avverbio ancora è di rito), cominciare a interrogare il senso differente che il lavoro ha per le donne, cominciare a capire le esperienze concrete di lavoro delle singole: i bisogni, le necessità, i desideri che sono messi in campo, le contraddizioni e i fallimenti che non sono descrivibili nei termini consueti della discriminazione. Che il lavoro per le donne sia una dimensione molto complessa e piena di contraddizioni, non riassumibile nei termini semplicistici della discriminazione, emerge per esempio molto bene nel libro curato da Adriana Nannicini Le parole per farlo. Donne al lavoro nel postfordismo, che raccoglie la narrazione delle esperienze di lavoro di alcune donne, tutte diverse per età, reddito, formazione e professione. La questione centrale è che a tutte queste donne che raccontano di sé piace lavorare e che dal lavoro si aspettano tanto: vedono il lavoro come un’ occasione di libertà, di indipendenza, un momento dove possono impegnarsi con passione e dimostrare la propria bravura, produrre cose sensate. Il lavoro è vissuto come un’occasione di esplicitazione della propria identità. Nello stesso tempo tutte queste donne sentono che il lavoro sta diventando sempre più pervasivo, al punto da mettere in causa la loro integrità personale. Il tratto che le accomuna è un connubio di stanchezza e ansia: il tempo di vita viene letteralmente colonizzato e saccheggiato dalle richieste di flessibilità e di dedizione da parte delle aziende. Una particolare forma di sofferenza per queste donne è la crescente difficoltà nel coltivare relazioni concrete improntate sulla fiducia, che costituisce il modo femminile di stare al mondo insieme con gli altri: flessibilità e precarietà tendono a lasciare spazio solo per delle relazioni temporanee superficiali, umanamente povere, se non anche cinicamente strumentali. Ed è forte il rischio di rimanere intrappolate in una specie di individualismo esistenziale: il lavoro non è l’auspicato incontro con il mondo, ma può paradossalmente trasformarsi in un’esperienza privata e solitaria. È ormai noto quanto in epoca postfordista sia centrale per il funzionamento del processo economico quel tipo particolare di lavoro che riguarda tutti i servizi alle persone e tutte le attività comunicative-relazionali dentro e fuori la sfera immediatamente produttiva. Si tratta di lavoro vivo che mette all’opera qualità cognitive e relazionali, competenze linguistiche e capacità empatiche : lavoro vivo spesso non distinguibile da altre forme di lavoro, e ciò nonostante faticoso, molto faticoso. Proprio grazie a una radicata confidenza con il lavoro di cura e domestico le donne sono portatrici di quelle qualità (difficilmente identificabili formalmente) tanto richieste nelle nuove forme del lavoro, e per questo costituiscono una manodopera preziosa nel mercato del lavoro. A ben guardare in questi anni non si è avuta una mancata parificazione delle donne con le posizioni maschili, si è verificata piuttosto una sorta di parificazione degli uomini alle condizioni non regolamentate e precarie tipiche dei lavori storicamente femminili. Molte donne oggi più che essere discriminate, escluse, sono piuttosto oppresse o minacciate dal delinearsi di nuove forme di sfruttamento delle loro soggettività differenti e delle competenze specificatamente femminili. I nuovi lavori – dicono le donne che parlano nel libro di Nannicini – chiedono e sollecitano «le capacità femminili maturate storicamente e le divorano un giorno dopo dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, in casa e fuori, spesso senza che lascino traccia, apparentemente, né sul volto del mondo né sulla figura di sé che ciascuna vuole costruire, esattamente come accade al lavoro della casalinga». Vuol dire che se non incominciamo a nominare il valore del lavoro femminile in sé, rinunciando a metterlo continuamente a paragone con il lavoro maschile, rischiamo (secondo un’azzeccatissima espressione di Maria Marangelli che è stata sindacalista Fiom-Cgil a Sesto San Giovanni) che il di più relazionale femminile venga continuamente scippato dal capitale.

Pubblicato il

05.03.2004 04:00
Tiziana Filippi
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