La via del sindacalismo

Secondo appuntamento, secondo successo. Oltre duecento i partecipanti a "Creare una, due e cento Officine", l'incontro per ragionare sulla costruzione di un sindacalismo di base su iniziativa del Comitato di sciopero delle Officine di Bellinzona, tenutosi a Rodi lo scorso sabato. La piccola località dell'alta Leventina per un giorno è diventata centro internazionale di riflessione e scambi di esperienze di lotta sui posti di lavoro.

«Se voi sindacati finite con lo sciopero di Bellinzona, noi dirigenza delle Ferrovie federali svizzere vi garantiamo il rincaro pieno alla categoria». Questa è un'immaginaria discussione nel corso di una trattativa. Aiuta però a sintetizzare uno dei rischi concreti in cui possono incombere le organizzazioni sindacali. Costruire un sindacalismo diverso significa non fare astrazione di questi problemi, ma affrontarli.
Lo ha fatto presente Ivan Cozzaglio, membro del comitato di sciopero, mentre introduceva il secondo appuntamento di "Creare due, tre cento officine" a Rodi. «La completa autonomia decisionale dei lavoratori è stata la chiave del successo bellinzonese» ha sottolineato Cozzaglio.  Se i sindacati di categoria devono forzatemente rappresentare gli interessi di tutti i ferrovieri, sono per questo motivo facilmente ricattabili. «Ma questo a Bellinzona non è stato possibile. - ha detto Cozzaglio - La scelta di come condurre la battaglia era tutta in mano operaia. Il comitato di sciopero è composto da sette operai. Non comprende funzionari sindacali. Le decisioni sono prese, ancora oggi, dall'assemblea dei lavoratori in sala pittureria». Per questa sua particolarità, secondo Cozzaglio, lo sciopero ha potuto durare il tempo necessario per trovare una soluzione negli interessi degli operai di Bellinzona, senza subire il peso degli interessi di tutta la categoria. Un sindacalismo di base quale espressione diretta dai lavoratori del medesimo posto di lavoro.
Ed è questo ragionamento che ha fatto da filo rosso al seminario di Rodi. Tra i colori autunnali di un limpido cielo di fine settembre, sono state raccontate dalla voce dei protagonisti, storie di occupazioni e scioperi in Italia e in Germania. Ad ascoltare c'erano oltre duecento persone di ogni estrazione sociale. Particolarmente significativa la presenza di molti giovani, provenienti da tutte le regioni del paese e di appartenenza a gruppi politici. Quasi a smentire chi critica i giovani per la loro presunta apatia.   
Dopo la storia raccontata dagli operai italiani in tuta dell'Innse (si veda articolo a lato), lo sguardo dei presenti si è spostato a nord, tuffandosi nel mondo del lavoro tedesco. Dapprima è stata presentata la Netzwerk  It, una rete composta da lavoratori attivi in aziende diverse ma anche disoccupati il cui scopo è mettere in condivisione le singole esperienze di lotta sui posti di lavoro condotte da colleghi.
Ha poi preso la parola Uwe, un macchinista delle ferrovie tedesche, che ha portato l'esperienza personale durante la vertenza dello scorso anno tra ferrovieri e la dirigenza delle Deutsche Bahn, le ferrovie tedesche. Dodici mesi di conflitto nei quali si sono registrati diversi scioperi. «Sono entrato come semplice membro di un sindacato e ne sono uscito da attivista» ha detto Uwe.  Iscritto al sindacato di categoria Dgl. Il macchinista ha così riassunto quei dodici mesi di conflitto: «Man mano che la vertenza cresceva nel tempo, ho avuto sempre più la sensazione che i lavoratori fossero esclusi dal processo decisionale. Sembrava che la battaglia servisse più a dare legittimità al sindacato, ad aumentare il suo potere contrattuale, che a rispondere ai bisogni e interessi dei lavoratori. Nel corso dei dodici mesi di lotta, il sindacato ha organizzato una sola manifestazione. Noi invece ritenevamo fondamentale parlare alla popolazione. Volevamo dire loro che la nostra lotta era una battaglia di società». 
L'importanza del fattore sociale nei conflitti sui posti di lavoro è poi stato ripreso da un altro oratore, il professore della Supsi nonché consulente del Comitato di sciopero delle Officine, Christian Marazzi. «Le officine hanno un futuro se è possibile riattivare la mobilitazione popolare» ha dichiarato Marazzi. «L'officina è un laboratorio politico, sociale oltre che sindacale. In gioco non ci sono solo le Officine, ma la cultura che definirei antropologica, fra conoscenza del lavoro e un ceto manageriale al quale i politici hanno delegato la gestione». Secondo il professore, non si può disgiungere la difesa delle condizioni nei posti di lavoro da una battaglia di società. Le Officine bellinzonesi con le sue mobilitazioni di sostegno da parte dei cittadini, hanno dimostrato che è l'unico modo per ottenere dei risultati tangibili. Tanto più nel contesto attuale di assenza della politica istituzionale.
Sulla questione di coinvolgimento della società, si erano espressi in precedenza anche i lavoratori dell'Innse. «Siamo arrabbiati con i milanesi» avevano detto durante il loro intervento, guardando con un po' di invidia al grande sostegno espresso dai ticinesi alle Officine. «Salvo qualche realtà come i centri sociali o altri gruppi di operai, di solidarietà ne abbiamo registrata poca. In ogni caso, nessuno in grado di mobilitare in modo significativo, incidendo realmente sulla politica territoriale» ha spiegato un operaio dell'Innse «Piuttosto abbiamo constatato l'indifferenza dei milanesi. Quando abbiamo bloccato delle strade perché non ci arrivava più il salario, abbiamo dovuto litigare con automobilisti che reclamavano perché arrivavano qualche minuto in ritardo al lavoro. L'individualità è imperante. La solidarietà con gli operai è considerata roba d'altri tempi». Una delusione è arrivata anche dal comportamento del sindacato di categoria, la Fiom. «Solo dopo cento giorni di occupazione hanno fatto un comunicato dove dicevano che gli operai dell'Innse avevano ragione. Dalla Fiom abbiamo ricevuto 300 euro di solidarietà, a fronte dei diecimila raccolti da movimenti e gruppi di operai». Cento giorni di occupazione e di lotta rimasti sconosciuti all'opinione pubblica. «È stato un peccato. Ma non lo diciamo solo per noi. La nostra battaglia non era capitale nostro, poteva essere condivisa da tutti. Si poteva diffonderla come un esempio di resistenza. Ma non è stato fatto» ha concluso l'operaio italiano. La giornata è proseguita nei frequentati gruppi di lavoro suddivisi in 4 temi, precariato, salari, sindacalismo al femminile e la politica dei trasporti. I presenti si sono lasciati con il terzo appuntamento già fissato. Il 7 febbraio si farà un altro passo per costruire un sindacalismo di base.

Pubblicato il

26.09.2008 02:00
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