Laddove c’è il marcio, la Svizzera c’è

Evasione, corruzione. Anche negli ultimi scandali mondiali emerge un ruolo di primo piano delle banche elvetiche

A pensare male ci si azzecca. Già, perché quello che emerge  dai recenti scandali – come quello che ha travolto la Bsi in Malaysia – è un quadro che i più critici avevano già chiaro in testa: le banche svizzere sono ancora focalizzate su operazioni a rischio riciclaggio. Eppure, da qualche tempo, il discorso dominante è quello di un sistema cambiato, stravolto dagli accordi internazionali e dalla fine del segreto bancario. Un sistema nel quale è ormai impossibile sgarrare. E i soldi dei dittatori? Tranquilli: la Svizzera si è dotata della migliore legge al mondo al riguardo. Poi, scoppia la primavera araba e salta fuori che i vari Ben Ali, Mubarak e Gheddafi avevano i milioni in Svizzera. Le multe pagate negli Stati Uniti? Attenzione: si tratta di una questione prevalentemente politica. E poi erano soldi evasi al fisco. Niente di grave, quindi. E la lista Falciani, che, oltre al denaro degli evasori, ha messo in luce i conti svizzeri di terroristi, trafficanti d’armi e politici corrotti? Relativizziamo: è solo la Hsbc, una banca nota per giocare sporco. E  i recenti scandali, Petrobras, 1Mbd, Fifa eccetera? «Non  si può più dire che è una banca, qua e là, che si comporta male: i casi sono troppi, ogni volta che emerge un grave fatto di corruzione internazionale vi è un addentellato in Svizzera» esclama Olivier Long­champ, esperto di finanza e corruzione per l’Ong Dichiarazione di Berna.

 

Nel solo affare Petrobras sono stati bloccati più di 800 milioni di franchi presso una quarantina di banche. «Delle due l’una – spiega  Longchamp – o il dispositivo è buono, come ci viene detto, ed è applicato male; oppure il dispositivo è applicato bene ma non è sufficiente».
La legislazione svizzera, attualmente oggetto di un riesame da parte del Gafi – l’organismo intergovernativo che si occupa dell’elaborazione di norme in materia di riciclaggio di denaro – è generalmente considerata buona. «Ma ogni legge è buona solo se è messa in pratica» afferma ad area Daniel Thelesklaf, direttore dell’unità d’intelligence finanziaria del Liechtenstein. Per l’esperto la legge deve essere supervisionata e messa in pratica: « Il lavoro dei supervisori, come la Finma, è particolarmente critico: se non riescono a garantire il rispetto delle regole, allora l’unico modo per correggere le cose è la giustizia penale».


La sensazione è che i controlli della Finma siano insufficienti: la possibilità di essere beccati è rara. Se poi si è colti con le mani nel sacco, le sanzioni sono molto basse (Bsi resta un’eccezione).  Tra gli esperti c’è chi, come Long­champ, sottolinea la mancanza di un effetto dissuasivo:  le sanzioni penali per riciclaggio aggravato sono infatti molto rare. Ma sono le sole che possono avere un effetto dissuasivo, mancato il quale ecco che il sistema può continuare a riprodursi. Per Thelesklaf quello che conta è la sete di rischio delle istituzioni finanziarie: «Se è troppo alto, ecco che si verificano questi casi. Per ridurre questa sete occorre quindi trovare una giusta miscela tra misure preventive e sanzioni severe per chi non rispetta le norme».


Il comunicato della Finma sulla Bsi ha sorpreso per la sua durezza. Si ha l’impressione che l’autorità di vigilanza abbia affrontato di petto la situazione, volendo lanciare un messaggio. Eppure, tutto è nato a Singapore. Sui cui giornali si legge della volontà della città-stato di non diventare un sostituto della Svizzera nell’attrarre denaro dubbioso, ora che «gli gnomi di Zurigo sono stati sommersi dalle multe americane».  Per Sergio Rossi, professore ordinario di macro-economia ed economia monetaria nell’Università di Friburgo, la Svizzera non poteva non agire: «La Finma e il Ministero pubblico della Confederazione non potevano che intervenire come hanno fatto dopo che l’autorità monetaria di Singapore aveva ordinato a Bsi la cessazione di qualsiasi attività nella città-stato entro 12 mesi. Resta la domanda a sapere se le autorità elvetiche avrebbero agito nello stesso modo nel caso in cui non ci fosse stato l’intervento deciso e perentorio di Singapore».


Crimine senza frontiere


Negli anni ‘80 Kenneth Rijock aiutava i trafficanti di droga a sbiancare i loro soldi. Poi, dopo essere stato arrestato e condannato a 30 anni di prigione, ha deciso di aiutare gli inquirenti nell’ambito della prima inchiesta congiunta svizzero-americana contro il riciclaggio. Oggi è un consulente in materia di criminalità finanziaria. Dal suo osservatorio di Miami,  analizza per area i fatti recenti: «I casi di corruzione e pagamenti illeciti su vasta scala, in Brasile e Malesia, che coinvolgono figure politiche di alto livello, dovrebbero essere un campanello d’allarme per la comunità bancaria internazionale». Per Rijock le banche svizzere dovrebbero migliorare il controllo di conti e transazioni delle persone esposte politicamente, così come quelle dei loro famigliari e dei loro partner d’affari: «Spesso i politici conosciuti sono identificabili, per cui delegano il lavoro sporco a dei subalterni non riconoscibili come sospetti».  


La finanza e l’economia, così come il crimine, sono fortemente internazionalizzati e ignorano sempre più le frontiere nazionali. Allo stesso tempo il quadro giuridico  è ancora fortemente ancorato al territorio nazionale. A beneficiarne sono le attività criminali: «La finanza globalizzata riuscirà sempre a sfuggire alle leggi e alle regolamentazioni, fino a quando la loro giurisdizione sarà limitata allo spazio nazionale in cui si trova la casa madre delle banche implicate in transazioni tanto opache quanto lucrative sia per chi le svolge sia per chi le consente all’interno di un istituto bancario». In questo senso per il professor Rossi l’inasprimento delle norme giuridiche in Svizzera serve a poco, «se le banche sulla piazza elvetica si avventurano in territorio straniero e partecipano alle attività illegali che si svolgono a partire da quel territorio, diramandosi poi in un ginepraio di società il cui solo scopo è quello di rendere impossibile risalire all’avente diritto economico di un patrimonio che si vuole nascondere alle autorità fiscali».

 

Non è un caso se le banche svizzere, qualche anno fa hanno deciso di creare le proprie succursali a Panama. La prima è stata la ticinese Pkb, nel 2012,  seguita a ruota da Bsi e Julius Bär.  I Panama Papers hanno dimostrato che l’industria bancaria svizzera è tra i principali creatori di società offshore, strutture immaginate per nascondere i soldi evasi o originati da attività criminali. Bsi era un istituto favorito dallo studio Mossack & Fonseca: «I documenti rilasciati dai media mostrano come era cosa nota che la banca non richiedesse le identità dei beneficiari economici e che non le notificava alle autorità fiscali americane, come richiesto dalla legge» conclude Rijock. Il meccanismo creato è oggi chiaro a tutti: conti-offshore e transazioni da perderci la trebisonda. Con la garanzia della banca elvetica. Un marchio di fabbrica che funziona sempre.

Pubblicato il

09.06.2016 14:38
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