Ma erano meglio i treni rossi

C’è un’Italia che vive fuori dai confini nazionali e di cui Roma poco sa, e ancor meno vuol sapere. Si stima che nell’ultimo secolo almeno 27 milioni di italiani – la metà degli attuali residenti nella penisola – abbiano lasciato il patrio suolo in cerca di fortuna, o più semplicemente a caccia di un lavoro e di un’accettabile prospettiva di vita da noi negata. Si potrebbe pensare che questa è una storia del passato, conclusasi con l’inversione dei ruoli quando l’Italia è diventata un paese di immigrazione. Le cose, però, non stanno così. Ancora oggi gli italiani a tutti gli effetti che vivono all’estero sono più di 4 milioni, il triplo degli immigrati nel nostro paese. La fuga, non più soltanto di braccia ma anche di cervelli, si è andata intensificando negli ultimissimi anni, 700 mila dal 1993 a oggi e recentemente è nell’ordine di 100 mila ogni 12 mesi, di cui soltanto 60 mila fanno ritorno in patria. Il 60 per cento delle partenze continua a riguardare cittadini che vivono da Roma in giù, e questa non è che l’ennesima conferma dell’Italia a due velocità. Il record delle partenze appartiene al Molise: il 22 per cento degli abitanti ha lasciato la regione. Le mete scelte dai 4 milioni di connazionali che vivono e lavorano all’estero sono la Germania (698 mila 799), l’Argentina (601 mila 658), la Svizzera (525 mila 383), la Francia (379 mila 749). Questi numeri dovrebbero servire a spuntare le armi delle politiche restrittive, quando non apertamente razziste, nei confronti dei migranti. Il fatto è che in Italia da tempo si è cancellato il problema dell’emigrazione verso l’estero che, se assunta, ridimensionerebbe la nostra sventolata e sempre meno realistica collocazione tra i Paesi più sviluppati, tra i Paesi che contano. Non è questa la sede per analizzare la composizione sociale dell’emigrazione all’estero, e in particolare verso la Svizzera. Basti sapere che insieme ai laureati (la fuga dei cervelli che tanto preoccupa il presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi) continuano a partire disoccupati, operai generici e specializzati, tecnici. L’obiettivo di chi tenta la fortuna all’estero, come si legge in uno studio coordinato dal professore Enrico Pugliese e presentato all’inizio dell’anno dal Cnel, non è più il lavoro a tempo indeterminato – a vita, per intenderci – ma è accettabile anche il lavoro precario e a termine. Tornando al modo in cui gli emigrati vengono percepiti dallo Stato italiano, non può essere sottovalutata la campagna politica lanciata dalla destra, in particolare da Alleanza nazionale e dal suo ministro per gli italiani all’estero Mirko Tremaglia, per dar loro il diritto di voto a distanza. La battaglia ha prodotto una legge, ben poco osteggiata dalle opposizioni di sinistra, che ha consentito agli italiani all’estero di votare per la prima volta a distanza in occasione del referendum per l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti di aziende con meno di 16 dipendenti. Gli emigrati italiani in Svizzera sono tra i meno entusiasti del presunto diritto acquisito con la nuova legge. Nel corso del convegno svolto a gennaio a Treviso dalla Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera, quel che è venuto fuori è che due sono gli obiettivi principali per i nostri connazionali al di là delle Alpi: 1) l’integrazione, tutt’altro che semplice, nel Paese ospitante, la Svizzera; 2) la difesa delle proprie origini, della cultura, della lingua, il mantenimento del rapporto con la propria terra e i propri cari. Due obiettivi che un voto burocratico in ambasciata non aiuta di certo. E il sospetto, emerso in più d’un intervento dei delegati al convegno di Treviso – la città del sindaco razzista e ora vicesindaco Gentilini, quello che ha fatto togliere le panchine dai giardini per evitare che potessero ospitare gli odiati immigrati – è che la legge sia soltanto un modo per conquistare voti, rilanciando la prosopea nazionalistica. Altrimenti, perché concedere la possibilità di influenzare le nostre scelte politiche anche a chi in Italia non è nato e non ha mai messo piede? Non era forse meglio, per restare al caso della Svizzera, della Germania e della Francia (i Paesi più vicini), quando gli emigrati italiani tornavano a casa con i “treni rossi” per votare – e votare a sinistra? In fondo, quello era un modo per mantenere un rapporto con il proprio Paese, alimentando relazioni e amicizie, affetti. Ancora oggi in Svizzera operano ben 70 colonie libere, certo molte di meno rispetto alle 120 degli anni Settanta, quando le forze politiche della sinistra italiana frequentavano questi luoghi importanti di aggregazione sociale, mantenendo così un rapporto stretto con le famiglie degli emigrati. Comunque, esistono e continuano a svolgere una funzione sociale e culturale importante, organizzando almeno 5 mila famiglie. Ed è importante la critica che da queste strutture viene avanzata nei confronti delle politiche del governo Berlusconi sull’immigrazione: «Per la Fclis è politicamente e moralmente impensabile non intervenire su leggi e politiche migratorie che penalizzano i nuovi migranti provenienti da Paesi extracomunitari. Dalla nostra storia e dai nostri valori – scrive il presidente delle Colonie libere italiane in Svizzera, Claudio Micheloni – scaturisce l’esigenza di esprimerci, di agire contro tutte le politiche discriminatorie che non mirano a una politica d’integrazione». Forse queste voci andrebbero ascoltate di più, almeno da parte delle forze della sinistra italiana. Quando si butta alle ortiche, o si lascia ammuffire in cantina una bandiera, prima o poi arriva sempre qualcuno disposto a impossessarsene. Ed è proprio quel che sta facendo il ministro repubblichino Mirko Tremaglia.

Pubblicato il

19.12.2003 04:30
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