Il caso

Lo scorso 13 febbraio, l’Ente ospedaliero cantonale (Eoc) comunica su Twitter di aver inviato 17.000 mascherine a Wuhan, come sostegno per l’epidemia che colpisce la Cina. Meno di due mesi dopo, il 6 aprile, a Ginevra atterra un cargo cinese con a bordo 2,5 milioni di mascherine destinate agli ospedali svizzeri, tra cui quelli dello stesso Eoc. Col Covid-19, lo abbiamo appreso, tutto cambia velocemente; questo esempio lo dimostra in maniera chiara. Così come dimostra un’altra cosa: il dilettantismo della Svizzera di fronte alla pandemia.

 

Già, il Paese delle case farmaceutiche, ma anche quello dei rifugi anti-atomici, delle scorte mirabolanti di caffè, sì, quel Paese che vuole dotarsi di nuovi aerei militari per proteggere i nostri cieli, è stato colto alla sprovvista. Mancano i letti ospedalieri, come già preannunciato, nel 2018, da Thomas Zeltner, ex capo dell’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp). Manca anche un oggetto più banale: le mascherine. Non solo la Svizzera non ha le scorte – al punto che chi lavora in prima linea ne è sprovvisto – ma non è nemmeno in grado di produrle. Alla faccia dell’industria elvetica, che si vuole di punta. «Al momento non esiste in Svizzera una produzione di maschere» ci conferma Renato Kalbermatten, responsabile della comunicazione del Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (Ddps).


Così, si attendono con ansia gli invii dalla Cina. Di mascherine, ma anche dei macchinari per produrle. Da Shanghai dovrebbero arrivare a breve due impianti da 750.000 franchi l’uno ordinati dalla Confederazione e dal Canton Zurigo tramite l’intermediazione di una società del Canton Turgovia, la Autefa Solutions. Quest’ultima, acquisita nel 2011 dalla cinese China Hi-Tech Corporation (Chtc), specializzata negli equipaggiamenti industriali, ha messo a punto un impianto in grado di produrre 40.000 esemplari al giorno di maschere N95/Ffp2. Ossia quelle più efficaci, utilizzate negli ospedali. Il governo cinese ha ordinato dieci macchine dalla Chtc, due delle quali dovrebbero presto giungere in Svizzera, nel Canton San Gallo, presso la Flawa Ag che si occuperà della produzione. Pechino avrebbe però imposto una condizione: Flawa potrà rifornire solo entità pubbliche. Una clausola non confermata dal Ddps secondo cui «queste informazioni sono soggette al segreto commerciale e il mercato non dovrebbe essere influenzato in questa difficile situazione».


Corsa ai ripari a parte, come si può spiegare una tale lacuna? Il piano nazionale contro le pandemie, istituito nel 2004 e regolarmente aggiornato, raccomanda nel dettaglio gli stoccaggi necessari per i prodotti disinfettanti e le mascherine. L’ultimo aggiornamento risale al 2018. Certo, nel documento c’è scritto che “non sussiste l’obbligo di stoccaggio di mascherine igieniche”, ma vengono proposte tutta una serie di raccomandazioni di stoccaggio: 55 mascherine igieniche a persona, 336 a persona per personale di farmacia e studi medici eccetera. Raccomandazioni che, però, sono restate lettera morta, nei cassetti delle varie autorità cantonali a cui compete “la tenuta a magazzino e l’approvvigionamento dei vari tipi di mascherine per ospedali e personale curante di ambulatorio”. Stesso discorso per il materiale disinfettante. Per quasi 80 anni la Svizzera ha immagazzinato migliaia di tonnellate di etanolo per la produzione di disinfettanti. Ma con la privatizzazione della Regia federale degli alcool nel 2018, le riserve sono state vendute, senza coinvolgere le autorità politiche. E oggi siamo al punto che i produttori di grappa devono offrire digestivi per produrre disinfettante.


«Sono inorridito nell’apprendere che ci mancava tutto fin dall’inizio. Non riesco a spiegare questo errore» ha affermato a L’Illustré, Robert Steffen, considerato il padre del piano pandemico e che ha presieduto la Commissione svizzera per le pandemie dal 1995 al 2007. Eppure, anche a livello politico c’è stato chi ha suonato l’allarme. Il 18 giugno 2007 la deputata Liliane Chappuis domandò al Consiglio federale come mai “se la Confederazione crede nell’efficacia delle maschere protettive (...) perché non si organizza in modo che tutta la popolazione le abbia?”. Alla sua morte improvvisa, una settimana dopo, la sua domanda è rimasta inevasa.
Ancora qualche giorno fa, Daniel Koch, Capo della Divisione malattie trasmissibili dell’Ufsp, ha affermato che «se bastava portare delle maschere per tornare al lavoro, lo avremmo già fatto». Ciò che è falso: la verità è che di mascherine non ce ne sono a sufficienza. E che la Svizzera ha fallito.

Pubblicato il 

09.04.20

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