Melfi: quando la lotta paga

Alle 13:30 escono dalla fabbrica in massa, come era sempre successo da quel giorno di 10 anni fa quando lo stabilimento modello, emblema della produzione postfordista, aveva aperto i battenti tra applausi, fanfare, Agnelli e Berlusconi. Eppure, c’è stata una parentesi, è la prima volta che tornano a uscire in massa dopo tre settimane che hanno cambiato la vita non solo in questo microcosmo lucano ma anche nel mondo del lavoro italiano. Tre settimane, tanto è durata la rivolta delle tute amaranto di Melfi. Ventuno giorni di sciopero a oltranza, i primi dieci con blocchi e presidi ai cancelli in cui non un’automobile è uscita dallo stabilimento, non una plancia o una ruota è entrata. Dopo dieci anni di silenzio, di lavoro a testa bassa condito con umiliazioni e punizioni quotidiane, provvedimenti disciplinari (novemila negli ultimi trentasei mesi), gli operai e le operaie più flessibili e produttivi d’Italia sono sbottati e hanno dato luogo alla lotta più dura e duratura da quel maledetto autunno dell’80 in cui sindacati e lavoratori subirono, sempre alla Fiat, una sconfitta storica. Una sconfitta, un lutto che forse solo oggi potrà essere elaborato, grazie alla vittoria della classe operaia meridionale raccontata finora come subalterna, spaventata, ricattata dunque obbediente. Si sono ribellati in massa, hanno imposto ai sindacati le loro ragioni, hanno costretto la Fiat a trattare, hanno preteso di partecipare a ogni passaggio della trattativa, hanno vinto. Da oggi Melfi non è più la fabbrica della vergogna dove si lavorava in condizioni peggiori e di più che negli altri stabilimenti italiani per guadagnare di meno perché così aveva voluto padron Agnelli e così aveva accettato il governo italiano che aveva concesso tutto all’azienda, soldi e infrastrutture. Tutto avevano concesso anche i sindacati con un accordo siglato a fabbrica ancora chiusa e dunque senza lavoratori: turni massacranti e doppia battuta (cioè due settimane consecutive allo stesso turno, pensate quando ai disgraziati capitava il notturno, perdipiù pagato meno che a Torino o a Termini Imerese); deroga al divieto di lavoro notturno per le donne; un premio di competitività legato alla presenza in fabbrica, così l’operaia che restava incinta pagava le sue colpe perdendo il premio, così i delegati in permesso sindacale. Non una fabbrica, una caserma dove chi si infortunava alla pressa veniva punito per disattenzione. Hanno gridato basta, hanno strappato un accordo positivo sulle condizioni di lavoro a un’azienda che non ne firmava, secondo i calcoli dei sindacalisti e la memoria del cronista, dal lontanissimo 7 luglio 1977. Quasi 40 mila automobili perse dalla multinazionale torinese, l’intero sistema produttivo italiano della Fiat paralizzato perché rifornito dalla rete della componentistica melfitana, la più conveniente per il padrone. Tutto questo è stato possibile solo grazie alla metalmeccanica determinazione delle tute amaranto, che ha costretto la Fiat a piegare la testa e inforcare la penna per firmare un accordo che mai avrebbe voluto. Escono in massa, applaudono e si applaudono al termine di un’assemblea straordinaria in fabbrica, al primo giorno di lavoro dopo la rivolta. Hanno discusso l’accordo siglato da Fim, Fiom Uilm e dalle Rsu di fabbrica – la rete di delegati che ha preso in mano la vertenza – e l’hanno ritenuto positivo. L’assemblea ha riservato alla Fiom un’ovazione, perché la Fiom è stato il solo sindacato (con l’aggiunta di qualche organizzazione di base) che ha stimolato per 10 anni il risveglio operaio a Melfi, quindi ha intercettato gli umori dei lavoratori e ne ha fatte proprie le rivendicazioni. Per Fim e Uilm, subalterne alla cultura padronale, contrarie fino al penultimo giorno di lotta agli scioperi e ai presidi, fischi a volontà e tessere strappate da parte di chi ha deciso di sostenere l’unico sindacato che sta dalla loro parte, la Fiom appunto. Ma attenzione, l’accordo non era ancora stato approvato al momento di andare in stampa. È stato discusso ieri, giovedì, con un referendum. Tutti i dipendenti della Fiat-Sata di Melfi hanno scritto il loro Sì o il loro No sulla scheda, con voto segreto. L’ha preteso la Fiom che da anni si batte per portare la democrazia piena dentro le fabbriche e in tutti i posti di lavoro: nessun accordo può avere valore senza il consenso dei diretti interessati. Può sembrare ovvio, banale, ma non lo è, per i padroni, per Cisl e Uil, per il governo, per la maggior parte delle forze di opposizione che quand’erano al governo si sono rifiutate di varare una legge sulla rappresentanza. (Mentre scrivo questo articolo si stanno aprendo le urne, dunque non conosco il risultato. Ma dopo trent’anni di lavoro giornalistico sulla Fiat, non ho particolari dubbi sull’esito positivo del voto, ndr). «Non saremo più operai di serie B», mi dice Antonio ai cancelli della fabbrica e aggiunge: «Fino a un mese fa questa intervista non avresti potuto farla, c’era troppa paura qua dentro». «L’aumento m’è piaciuto – spiega un’operaia – anche se l’aumento è scaglionato in due anni e dovremo attendere prima di essere trattati allo stesso modo degli altri operai Fiat, ma forse più di questo non potevamo ottenere». E, soprattutto, da luglio «basta con la doppia battuta», basta con le due settimane consecutive di lavoro notturno per poi percorrere 50 se non «70 chilometri per tornare a casa quando mio marito parte per il turno di mattina e figli vanno portati a scuola». Di tute amaranto ne sono morte parecchie, molti sono rimasti feriti, nelle strade della Basilicata e del nord della Puglia in questi dieci anni. Basta, infine, con l’arbitrio: una commissione mista valuterà i provvedimenti disciplinari dell’ultimo anno. A Melfi inizia un’altra storia, un incoraggiamento per l’intero movimento operaio italiano. La Fiom incassa un risultato straordinario e speriamo che gli altri sindacati ritrovino la ragione. Una vittoria anche per la Fiom La Fiom si è giocata tutto nel conflitto aperto dagli operai di Melfi. L’organizzazione dei metalmeccanici Cgil conduce da anni una battaglia in solitudine per restituire ai lavoratori il diritto di contrattare per migliorare le proprie condizioni e di decidere su quel che li riguarda: le vertenze, i contratti, gli accordi aziendali. Per questo si è attirata l’ostilità del padronato italiano, ma anche delle altre organizzazioni sindacali. Persino dentro la Cgil c’è una spinta a isolare ed emarginare le posizioni della Fiom che ha rifiutato di firmare gli ultimi due contratti di categoria, peggiorativi della condizione lavorativa. Una sola sponda ha avuto la Fiom negli ultimi anni: il consenso via via crescente degli operai e degli impiegati metalmeccanici. La vittoria di Melfi, l’accordo strappato con la lotta alla Fiat, oltre a far uscire i lavoratori da una condizione di servitù hanno rotto l’accerchiamento della Fiom che, forte di questo esito, si prepara al congresso nazionale anticipato di giugno. Al suo segretario generale, Gianni Rinaldini, abbiamo chiesto di commentare le tre settimane di lotta a Melfi e l’accordo con la Fiat. Rinaldini, dopo 10 anni di fatica a testa bassa i lavoratori di Melfi hanno rotto le fila e hanno lanciato un messaggio forte: ribellarsi è possibile, oltre che giusto. Le tre settimane di Melfi e il risultato raggiunto sono l’espressione di una nuova soggettività dei lavoratori. Ci insegnano proprio che è possibile la ricostruzione di un soggetto collettivo capace di intervenire direttamente sulle proprie condizioni di lavoro. C’è stata una vera e propria rivolta sociale che ha messo in crisi una struttura di comando odiosa e repressiva che pomposamente chiamavano “modello partecipativo”. In realtà, il “modello Melfi” si basava sullo sfruttamento pesante dei lavoratori, più pesante e meno retribuito e sulla gestione unilaterale della condizione lavorativa. Lo testimoniano le migliaia di provvedimenti disciplinari. La negazione di qualsivoglia trattativa sulla condizione operaia è stata travolta dalla rivolta che ha imposto prima il negoziato con le Rsu, quindi l’accordo. Last but not least, la democrazia: l’ipotesi d’accordo sarà valutata con il voto segreto di tutti i lavoratori e le lavoratrici. Si può dire che la lotta e l’accordo di Melfi sono il rovesciamento della sconfitta subita nell’80 a Torino? Si può dire che si chiude una stagione politica e sindacale iniziata 25 anni fa. Il modello Melfi è figlio della sconfitta dell’80, ha retto per 10 anni e poi è imploso. Si può anche aggiungere che dalla fine degli anni Settanta è la prima volta che si firma un accordo non in difensiva, non contro i licenziamenti, ma per migliorare le condizioni di lavoro. Nella frase di Antonio ai cancelli di Melfi, «fino a un mese fa questa intervista non avresti potuto farla, c’era troppa paura qua dentro» {vedi articolo sopra), c’è il senso profondo di quel che è successo in questa fabbrica. E gli aspetti contenuti nella lotta di Melfi rappresentano l’agenda del congresso nazionale della Fiom: il conflitto sociale, la capacità di acquisire risultati, la democrazia nella gestione delle vertenze e il voto, anzi il principio “una testa un voto” per decidere se un accordo è condiviso e, dunque, valido. Infine, credo che dopo l’accordo di Melfi si debba aprire un confronto nazionale sul futuro della Fiat e del settore automobilistico italiano.

Pubblicato il

14.05.2004 03:30
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