Bolle di sapone e fischietti. Bimbi in carrozzina, anziani, giovani dai capelli colorati, con tamburi e spinelli alla mano: sabato scorso una folla eterogenea ha invaso la capitale federale. Erano 40 mila secondo i quotidiani della Svizzera romanda e tedesca, inclusi i popolari “Blick” e “der Bund”: nessuno ricorda un corteo così grande «negli ultimi venti anni almeno». “Neanche una goccia di sangue per il petrolio” era la parola d’ordine della mobilitazione. Ed hanno risposto in tantissimi, raggiungendo Berna con macchine private, pulman e treni speciali. Ad attenderli una temperatura decisamente polare (bitterkalt, secondo i bernesi): all’ora di pranzo, nonostante un pallido sole, il termometro segnava meno cinque. Ma le condizioni atmosferiche non hanno scoraggiato i manifestanti e fra canti e balli la kermesse é andata avanti fino al pomeriggio. Ironia tanta, soprattutto nei numerosi cartelloni individuali: «Assetati di potere, divoratori di libertà: Cannibali!» recitava uno striscione enorme. Molti hanno scelto di giocare con le parole: “BUllSHit” (stronzata), oppure “Bush Happens”, a parafrasare la celebre espressione americana “Shit happens”. Tanti anche gli scherzi a sfondo sessuale: un signore innalza un cartello che fa il verso alle campagne anti-Aids e intima: «Bush e Blair, per una volta pensate con la testa», su immagine eloquente di un organo genitale maschile trasformato in un missile. Un corteo per dire fuori dai denti come la pensi: ecco allora che Bush junior é “psicopatico”, “terrorista” o semplicemente «un idiota: la morte é il suo hobby». Di sicuro, il presidente americano é: “Not Wanted” (indesiderato). Nelle strade di Berna sfila un grido di rivolta che nasce dalla pancia: «Il mondo intero governato dall’Internazionale degli investitori? Resistete!» e ancora: «Ferma l’ipocrisia» e «Disarmo? Certo, ma anche per gli Stati Uniti». Un corteo dominato dall’indignazione per: «una visione insopportabile: la prima potenza mondiale che minaccia di bombardare una delle popolazioni più povere del globo», spiega Eric Decarro del Ssp/Vpod. Un corteo in mille lingue: quelle nazionali e quelle delle tante comunità straniere che hanno partecipato. Profughi e rifugiati da Libano, Palestina, Kurdistan. Militanti politici e tante mamme, ma nessun cartello e nessuno slogan a favore di Saddam. Il giudizio della piazza é unanime: Saddam è un dittatore che opprime il popolo iracheno. Ma nessuno dimentica che: «sono stati gli Stati Uniti ad armarlo e finanziarlo», come grida dal palco Nadia Mahmud del Partito comunista dei lavoratori iracheno. È esiliata a Londra da un decennio e spiega, con gli occhi di nocciola in fiamme: «Non é una guerra per la democrazia, né contro il terrorismo: dobbiamo restare uniti per dire no alla barbarie del Nuovo ordine mondiale». Circondata di guardie del corpo, Mahmud racconta ai giornalisti la tragedia delle donne: «che in tutto il mondo sono le prime a pagare per la guerra. E quelle irachene sono già a pezzi: non possono lavorare, non possono studiare. Hanno perso figli, fratelli, mariti». Nessuno dimentica il Kosovo, il Vietnam e tanto meno l’Afghanistan: nella Bundesplatz, 3 mila 500 palloncini rosso sangue ricordano «i civili afghani che sono stati uccisi dagli americani». Ed è tutto un fiorire di slogan recuperati dall’età d’oro del pacifismo internazionale: ecco sfilare «Make love, not war», «make love, not bombs» e un inedito «Make love, not peace» (fate l’amore, non fate la pace), tanto per strappare l’ennesimo sorriso a chi passa. Successo personale per la ministra Micheline Calmy-Rey: da Basilea un gruppo di giovani arriva con magliette dipinte e cartelloni perentori, «Calmy-Rey for president». Degli Stati Uniti, spiegano: «perché avrebbe potere sul mondo intero e sicuramente saprebbe fare meglio di Bush». Paolo Gilardi del Movimento per il socialismo, invece, non concede sconti alla neo ministra: «Convocare una conferenza sulle conseguenze umanitarie del conflitto significa partire dal presupposto che la guerra ci sarà. Il Governo farebbe meglio a prendere atto che il novanta per cento della popolazione svizzera è contraria alla guerra ed è tempo di fare sentire forte il nostro No all’embargo contro l’Iraq, che sta uccidendo centinaia di migliaia di innocenti». Embargo che ritorna nelle parole dei relatori sul podio, alla fine del corteo, fra l’entusiasmo per il successo della mobilitazione e le parole di rabbia per l’impotenza di fronte alla perdita di tante vite umane: «siamo stufi di portare rimedio a catastrofi umanitarie determinate da scelte politiche folli», incalza Pepo Hofstetter, della Comunità di lavoro di sei organizzazioni svizzere di cooperazione internazionale (Swissaid, Sacrificio Quaresimale, Pane per i Fratelli, Helvetas, Caritas, Aces). Ci sono anche i Raheliani, i vestiti eccentrici e i volantini rosa che inneggiano a: «pace e amore universali: Rahel é il nuovo profeta». E c’è un gruppo di persone tutte di rosa vestite, che ballano la samba e tirano coriandoli colorati (ovviamente rosa) in faccia ai pochi granatieri di guardia al Palazzo Federale. Mentre un altro gruppo di giovanissimi, tutti di nero bardati, sale sul cornicione dell’Ubs della Bärenplatz e trasforma il logo di casa in un coloratissimo graffito “No Bush”. Il servizio d’ordine è discreto ma tempestivo e alcuni, fra cui la deputata verde Franziska Teuscher, si mettono a fare scudo con il loro corpo fra i manifestanti e la polizia. Teuscher dal podio se la prende con l’esecutivo, che: «deve portare all’Onu e consegnare agli ambasciatori americano e britannico la nostra presa di posizione: non vogliamo la guerra! La Costituzione federale ci obbliga all’impegno per un ordine internazionale equo e pacifico: la Svizzera deve revocare la concessione del suo spazio aereo e smetterla con il traffico di armamenti». Secondo il Seco, per il secondo anno consecutivo sono addirittura cresciute le esportazioni di materiale bellico svizzero, con un utile di 30,8 milioni di franchi solo per quelle vendute agli Stati Uniti.

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21.02.03

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