"Mitch", un'occasione perduta

Novemila morti, milioni di persone in fuga, danni materiali stimati a più di 6 miliardi di dollari, centinaia di tonnellate di aiuti di emergenza, una miriade di progetti di ricostruzione. Non sono le cifre dello tsunami che sei mesi fa si abbattè sul Sud-est asiatico, eppure anche l’uragano Mitch che dal 26 ottobre al 1. novembre 1998 devastò ampie zone dell’America centrale cedette il passo a un massiccio intervento di assistenza umanitaria e ricostruzione da parte della comunità internazionale. Nei mesi successivi, i paesi donatori, gli istituti di credito e le organizzazioni internazionali si impegnarono a «non ricostruire la stessa America centrale», ad ancorare la ricostruzione dei paesi più colpiti – l’Honduras e il Nicaragua – a un diverso modello di sviluppo: riduzione della vulnerabilità sociale ed ecologica, consolidamento della democrazia, diritti dell’uomo, trasparenza, riduzione del debito estero. Che ne è stato di quelle promesse? L’Honduras e il Nicaragua si sono “trasformati” in questi sei anni e mezzo? L’economista e sociologo Angel Saldomando* risponde con un “no” e implicitamente invita alla prudenza di fronte a promesse più facili da pronunciare che da mantenere. «Ho letto numerosi rapporti sulla cooperazione internazionale dopo il recente maremoto. Riduzione del debito estero, moratoria, un altro tipo di sviluppo... Ai paesi del Sud-est asiatico colpiti dallo tsunami si stanno promettendo esattamente le stesse cose che furono promesse dopo l’uragano Mitch. A sei anni di distanza, però, in Honduras e in Nicaragua le buone intenzioni sono ormai seppellite sotto una valanga di documenti sulla “riduzione della povertà”. La catastrofe poteva essere un’occasione per ripensare il modello di sviluppo, invece altri interessi hanno finito per imporsi». Nell’intervista concessa ad area, Angel Saldomando ripercorre le tappe salienti e illustra i nodi dell’esperienza di ricostruzione post-catastrofe vissuta da Honduras e Nicaragua dopo l’uragano Mitch. Angel Saldomando, come rispose la comunità internazionale all’emergenza umanitaria dopo l’uragano Mitch? Tutti concordano nel dire che la risposta fu pronta e importante. I dati lo confermano. Fino al 2001 – quando gli aiuti tornarono al livello precedente il Mitch – i fondi della cooperazione internazionale aumentarono, pur non arrivando a coprire interamente i danni (stimati in 3,6 miliardi di dollari per l’Honduras, in 900 milioni per il Nicaragua) e i costi della ricostruzione (5 miliardi per l’Honduras, 1,2 miliardi per il Nicaragua).(1) In Nicaragua, ad esempio, le infrastrutture (strade, ponti, case, ecc.) furono ricostruite, il 75-80 per cento della popolazione colpita fu trasferito altrove e insediato in case nuove, di mattoni. Inoltre i luoghi a rischio nel frattempo sono stati censiti, la protezione civile formata ed equipaggiata, i sistemi di allerta migliorati, l’istituto incaricato delle previsioni meteorologiche rinforzato. Insomma, in generale si può affermare che l’intervento della comunità internazionale durante le fasi di emergenza umanitaria e di ricostruzione dell’infrastruttura è stato positivo. Ma l’obiettivo proclamato subito dopo il Mitch dai paesi donatori e dalle organizzazioni internazionali non è stato raggiunto: sulla carta l’idea era di collegare la ricostruzione a un nuovo tipo di sviluppo, in realtà questo vincolo non si è mai verificato. In un articolo su Le Monde diplomatique(2) lei ricordava che l’elevato numero di vittime del Mitch era dovuto in buona parte all’insediamento di contadini in zone a rischio. Qualcosa è cambiato nel frattempo in Nicaragua e in Honduras? No. L’assenza di risorse, l’impossibilità di accedere a qualsiasi credito, delle politiche decisamente orientate verso un modello agro-esportatore, la concentrazione delle terre nelle mani di poche persone [anche in Nicaragua, paese che pure aveva conosciuto un’ampia ridistribuzione delle terre con la riforma agraria portata avanti dai sandinisti al potere negli anni ’80, ndr], continuano a spingere molti contadini verso zone marginali e a rischio: le rive di fiumi e torrenti, i fianchi di vulcani e colline, zone che poi vengono disboscate per ottenere legna per cucinare e costruire. Il disboscamento è drammatico e continua, non da ultimo perché le concessioni date dai governi alimentano una vera e propria mafia del legname, in Nicaragua e ancor di più in Honduras dove esistono territori fuori controllo, senza legge né Stato, dove si sono persino verificati scontri armati fra la popolazione organizzata in milizie e chi saccheggia boschi e zone protette. Ma il problema non è soltanto delle zone rurali. Anche nelle città – in particolare qui a Managua, la capitale del Nicaragua – la gente continua ad insediarsi in zone a rischio di inondazioni, lungo i canali. Sono persone che non hanno nessun’altra possibilità. Queste realtà rendono estremamente difficile qualsiasi politica di prevenzione. Oltre al degrado ambientale che continua, lei scrive di nuovi finanziamenti che non sono indirizzati verso gli obiettivi previsti, di una ricostruzione che «non ha trasformato niente», che «si è limitata a rimpiazzare le infrastrutture danneggiate e a dei progetti sociali comunitari privi di qualsiasi nesso con il modello economico e la povertà».(3) Perché a suo avviso non è stato possibile raggiungere l’obiettivo “trasformatore” proclamato a suo tempo? Le ragioni sono svariate. Quella centrale secondo me è la seguente: il Nicaragua e l’Honduras sono strettamente controllati dalle istituzioni finanziarie internazionali(4) nell’ambito di programmi di aggiustamento strutturale e di riforme standard che hanno impedito l’integrazione degli obiettivi “trasformatori” proclamati a suo tempo nelle politiche nazionali. Il margine di manovra di cui dispongono questi paesi per elaborare le loro politiche pubbliche è strettissimo. Dopo il Mitch si formarono delle coalizioni di organizzazioni non governative (Ong), movimenti sociali, organizzazioni locali, ecc. che riuscirono ad inserirsi nel dibattito sulla ricostruzione insistendo su un riorientamento delle politiche pubbliche e della cooperazione internazionale. Ben presto ci si è però resi conto che tali proposte si scontravano sia con la politica macroeconomica dei governi, condizionata dall’esterno, sia con le politiche settoriali dei governi, influenzate dalle organizzazioni internazionali. In Nicaragua, ad esempio, le istituzioni finanziarie internazionali si sono opposte alla ricostruzione di un sistema finanziario pubblico [smantellato e privatizzato durante gli anni ’90 dopo la sconfitta elettorale del Frente sandinista alle elezioni del 1990, ndr] che avrebbe permesso in particolare di incidere sulla povertà nelle zone rurali. Nel corso degli anni l’obiettivo “trasformatore” si è così perso per strada, vittima di una sequenza che definirei “perversa”. Quale? In Nicaragua siamo passati dagli accordi di Stoccolma sulla ricostruzione e la “trasformazione” post-Mitch(5) all’Iniziativa a favore dei paesi poveri e fortemente indebitati-Hipc,(6) a una Strategia di riduzione della povertà, a una Strategia rafforzata di riduzione della povertà e infine a un Programma nazionale di sviluppo calcato su quest’ultima. Dall’obiettivo “trasformatore” iniziale, durante questo processo si è passati all’approfondimento di un modello di sviluppo la cui origine è anteriore al Mitch, un modello incentrato sull’apertura dell’economia nazionale, sugli investimenti esteri e sulla necessità per questi paesi di “agganciarsi” al Tlc.(7) Durante gli anni della ricostruzione e delle promesse di “trasformazione” che ne è stato del debito estero? Alcuni creditori bilaterali (Francia, Olanda, Cuba) condonarono l’intero debito o una parte di esso. Invece il Club di Parigi che riunisce gli Stati creditori si limitò a decretare una moratoria di tre anni. Già prima del Mitch, comunque, il Nicaragua e l’Honduras erano candidati alla Hipc, meccanismo che sì consente il condono di una parte importante del debito estero, ma che di fatto essenzialmente annulla i crediti impagabili e rilegittima le politiche di austerità. I fondi che i governi non devono più destinare al rimborso del debito estero dovrebbero essere investiti in settori quali educazione e salute. Invece ciò che sta succedendo – non solo in questi due paesi, ma anche in Bolivia che fu il primo paese ad accedere alla Hipc – è che tali fondi non sono destinati alla spesa sociale, bensì utilizzati da un lato per rimborsare i debiti contratti dai governi con le banche private, dall’altro per mantenere il livello delle riserve in divise richiesto dalle istituzioni finanziarie internazionali. Una situazione completamente schizofrenica, tecnicamente e politicamente insostenibile, frutto di una visione ortodossa senza alcun legame con la realtà di questi paesi. * Di nazionalità cilena e francese, vive da anni in Nicaragua. Ha lavorato per diverse organizzazioni internazionali e agenzie nazionali di sviluppo in America centrale. Coautore di Qu’allons-nous faire des pauvres?, L’Harmattan, Parigi, 2005. 1 Secondo la Banca mondiale tra il 1999 e il 2001 l’Honduras ha ricevuto 2,7 miliardi di dollari, il Nicaragua 1,5. Nel maggio del 1999 a Stoccolma paesi donatori, istituti di credito e organizzazioni internazionali – riuniti nel Gruppo consultivo per la ricostruzione e la trasformazione dell’America centrale – avevano promesso 9 miliardi di dollari sottoforma di donazioni, prestiti e riduzione del debito estero. Vedi Angel Saldomando, “L’ombre de Mitch sur l’Amérique centrale”, Le Monde diplomatique, février 2005, p. 16. 2 Ibid. 3 Ibid. 4 Il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale (Bm), la Banca interamericana di sviluppo (Bid). 5 Vedi nota 1. 6 Meccanismo istituito nel 1996 da Fmi e Bm allo scopo di ridurre sostanzialmente il debito estero dei paesi più poveri e indebitati. Al mese di settembre 2004 ne beneficiavano 27 paesi, tra i quali il Nicaragua e l’Honduras. Per accedere alla Hipc è necessario aver seguito i draconiani programmi di aggiustamento strutturale dell’Fmi, aver dimostrato una rigida disciplina macroeconomica (leggi: congelamento di salari e spesa nel settore pubblico, privatizzazioni, ecc.) e aver adottato cosiddette “strategie di riduzione della povertà”. 7 L’accordo di libero scambio firmato nel maggio del 2004 fra Stati Uniti, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Repubblica Dominicana.

Pubblicato il

01.07.2005 01:00
Stefano Guerra
Editore

Sindacato Unia

Direzione

Claudio Carrer

Redazione

Francesco Bonsaver

Raffaella Brignoni

Federico Franchini

Mattia Lento

Indirizzo
Redazione area
Via Canonica 3
CP 1344
CH-6901 Lugano
Contatto
info@areaonline.ch

Inserzioni pubblicitarie

Tariffe pubblicitarie

T. +4191 912 33 88
info@areaonline.ch

Abbonamenti

T. +4191 912 33 80
Formulario online

INFO

Impressum

Privacy Policy

Cookies Policy

 

 

© Copyright 2023