Miti nazionali e politica migratoria

Uno dei temi centrali della vita politica svizzera è quello delle migrazioni. Un tema nel quale è facile perdere i punti di riferimento, fra i continui cambiamenti legislativi da un lato e l'emotività generata dalle diverse campagne xenofobe dall'altro. A fare ordine ci pensa ora Etienne Piguet con il suo libro "L'immigrazione in Svizzera", appena uscito da Casagrande di Bellinzona. Lo abbiamo intervistato.

Ci sono Paesi come gli Usa, il Canada o l'Australia, che si considerano Paesi d'immigrazione e considerano questa loro caratteristica una parte fondamentale della loro identità nazionale. La Svizzera invece, nonostante un alto tasso d'immigrati, non si è mai considerata un paese d'immigrazione. Etienne Piguet, come lo spiega?
Negli Usa, in Canada o in Australia il processo migratorio è stato molto graduale, e anzi furono i migranti stessi a costruire il Paese come lo conosciamo oggi. La Svizzera invece s'è costituita alla fine del XIX secolo quando era ancora un Paese di emigrazione e l'immigrazione era un fenomeno secondario. Essa è diventata un Paese d'immigrazione quasi all'improvviso dopo la Seconda guerra mondiale, quando l'inattesa prosperità economica ha obbligato a trovare i lavoratori necessari a sostenere questa prosperità. Parallelamente però s'istaurò una perenne paura che questa ricchezza fosse di breve durata e che gli immigrati dovessero quindi essere pronti a ripartire in ogni momento. Quando poco a poco ci si è accorti che la prosperità perdurava e che il contributo degli immigrati al benessere del Paese era sempre più forte, non si è fatto il salto mentale per capire che sì, effettivamente noi siamo un Paese di immigrazione.
Perché non lo si è fatto? Oggi siamo ben coscienti che gli immigrati contribuiscono al nostro benessere e che la loro integrazione è possibile con successo. Eppure l'atteggiamento di base permane negativo, e i più importanti progressi nel riconoscimento dei diritti dei migranti li si deve all'impulso esterno dato dall'Ue attraverso gli Accordi bilaterali.
È vero. Quando l'immigrazione ha cominciato ad avere un ruolo importante in Svizzera, il mito nazionale era già stato costruito. Questo mito si basa sul Patto del 1291, sull'entrata progressiva di nuovi Cantoni, sul concetto di nazione costituita sulla volontà di essere tale (Willensnation), e non tiene conto del fenomeno migratorio, subentrato successivamente. Una volta cristallizzatasi questa immagine della Svizzera, diventata parte della sua identità pur essendo in buona parte una costruzione ideologica (come accadeva a molti Paesi nel corso del XIX secolo), ecco che poi è molto più difficile cambiarla per integravi nuovi parametri come quello migratorio. Il mito nazionale degli Usa si è invece costruito con l'immigrazione, che era presente fin dagli inizi. Sta scritto addirittura sullo zoccolo della Statua della libertà. Mai una simile scritta è stata presente nell'immagine mitica della Svizzera, al contrario, il mito svizzero è piuttosto quello di riunirsi per proteggersi dalle minacce esterne.
Chi con questo mito della Svizzera ci gioca è l'Udc. Che infatti è riuscita negli ultimi 20 anni a dettare il dibattito politico in materia di stranieri e di asilo. Con quale successo?
Farei una distinzione fra le discussioni politiche da un lato e la realtà delle politiche concrete che trovano applicazione nella vita quotidiana. Sotto questo profilo sì, l'Udc riesce ad imporre sull'agenda politica i suoi temi in materia di politica di asilo e degli stranieri. Ma sono meno sicuro che riesca davvero a determinare ciò che in realtà avviene nel mondo dell'immigrazione. È vero che l'Udc monopolizza il tema, ma la politica reale della Svizzera è comunque abbastanza lontana da ciò che l'Udc dice di volere.
Le ultime modifiche del diritto d'asilo e degli stranieri di fatto sono però state scritte dall'Udc.
L'Udc ha certamente usato il tema dell'asilo per ottenere voti. Ma anche in questo ambito l'influenza del diritto internazionale da un lato e i contropoteri costituiti dai tribunali e da certi movimenti della società civile dall'altro hanno fatto sì che la politica d'asilo in Svizzera non sia così chiusa come l'Udc vorrebbe. Ogni anno migliaia di persone riescono a rimanere in Svizzera attraverso la legislazione sull'asilo. Potrebbero forse essere ancora più numerose se l'Udc non avesse l'influsso che ha, ma non si può dire che sia l'Udc che fa la poltica dell'asilo svizzera.
Dunque se l'ondata xenofoba dei primi anni '70 ha avuto una conseguenza diretta sulla politica migratoria svizzera, l'ondata xenofoba lanciata negli anni '90 dall'Udc non ha ottenuto lo stesso risultato?
L'ondata dei primi anni '70 ha avuto un effetto soprattutto perché contemporaneamente c'è stato un degrado del clima economico. C'era la crisi petrolifera che aveva obbligato decine di migliaia di persone a partire e che in definitiva realizzò i desideri degli ambienti xenofobi. Ma è stato solo in via indiretta che la politica svizzera è giunta a questo risultato. Non farei dunque una differenza fra i due periodi. Direi piuttosto che, in maniera costante, la tentazione della chiusura è stata una componente delle discussioni politiche in Svizzera e che costantemente c'è stato un influsso delle ideologie xenofobe, ma direi che questo influsso sulla realtà della politica migratoria non è stato determinante.
Lei individua due fasi dell'immigrazione in Svizzera. Una fino al 1973, l'altra a partire dagli anni '80. Per quali caratteristiche, a parte la provenienza dei migranti, si distinguono questi due periodi?
Durante la prima fase l'immigrazione era considerata come transitoria e volutamente era concepita e gestita per occupare delle funzioni basse nella gerarchia lavorativa. Espressione tipica di questa fase è lo statuto dello stagionale. Durante la seconda fase invece l'immigrazione è più duratura e occupa in media posizioni più alte nell'economia. Gli anni '80 sono ancora una fase di transizione, mentre con l'inizio degli anni '90 si entra in pieno nella nuova fase.
Gli Accordi bilaterali con l'Ue segnano a tutti gli effetti l'inizio di una nuova fase?
I Bilaterali confermano questa tendenza soprattutto in relazione con i Paesi non appartenenti all'Ue, perché ora è possibile entrare in Svizzera da un Paese non-Ue quasi solo per occupare posti di lavoro altamente qualificati. Ma oggi siamo già in una fase un po' più complessa: ci si accorge che la tendenza ad un'immigrazione sempre più duratura e sempre meglio qualificata arriva a saturazione: non potremo continuare ad avere sempre più persone sempre più qualificate. Al contrario, abbiamo comunque sempre bisogno di manodopera poco qualificata.
Lei sostiene che a fronte di una concessione sempre più ampia di diritti ai migranti accolti, c'è una progressiva chiusura delle frontiere verso chi non è considerato degno di accoglienza. Come si conciliano queste due tendenze apparentemente contraddittorie?
È una tradizione che ci deriva direttamente dall'epoca della formazione degli Stati-nazione nel XIX secolo. In questo ordine di idee le solidarietà sono solo nazionali e concesse solo a persone che sono territorialmente legate al Paese, i cittadini. Sono solo queste le persone che possono beneficiare di un travaso di risorse all'interno dello Stato-Nazione, in particolare delle assicurazioni sociali. Ed è quasi naturale ritenere che i nazionali debbano essere privilegiati rispetto agli stranieri. Progressivamente però hanno preso piede dei diritti umani che non derivano più dall'appartenenza nazionale, e contemporaneamente la mobilità delle persone è fortemente cresciuta. Tutto questo ha messo pesantemente in crisi l'idea di una solidarietà legata all'appartenenza territoriale. Lo capiamo con la globalizzazione di fenomeni come l'accattonaggio: quando sotto casa abbiamo dei mendicanti provenienti dalla Romania, questo da un lato significa che abbiamo diritti universali che fanno in modo che non li lasceremo morire, d'altro canto però non capiamo per quale ragione dovremmo occuparci di mendicanti che non consideriamo "nostri". Qui emerge la necessità di ripensare la solidarietà a tutt'altra scala. Ma è una cosa che facciamo ancora molta fatica a comprendere. Certi vedono la soluzione del problema nel ritorno alle vecchie categorie, nel recupero del programma nazionalista, perché funzionava nel XIX secolo. Ma è evidente che si tratta di un'illusione.

Pubblicato il

09.10.2009 04:00
Gianfranco Helbling
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