Monsanto condannata

È stata giudicata colpevole di crimini gravi da un tribunale cittadino

Un processo unico e senza precedenti. Cinque giudici professionisti che hanno sentenziato sulla base dei “Princìpi guida sulle imprese e i diritti umani” del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite e che, tramite gli strumenti del diritto internazionale, hanno esaminato diversi capi d’imputazione e, sulla base di questi, hanno condannato la multinazionale statunitense Monsanto. Un’iniziativa che certo non ha nessuna valenza ufficiale ma che potrebbe avere un forte impatto simbolico per tutte quelle aziende che, mosse unicamente dalla ricerca del profitto, minacciano la salute degli esseri umani e la sicurezza del pianeta.

La sentenza dello scorso 18 aprile è senza appello: la multinazionale Monsanto, leader mondiale dell’agrochimica, è stata riconosciuta colpevole di diversi comportamenti nocivi per l’uomo e la natura. Secondo la corte, presieduta da Françoise Tulkens, ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, la compagnia si è macchiata di diversi crimini. In particolare Monsanto si è resa colpevole di pratiche che hanno un impatto negativo sulla «libertà indispensabile alla ricerca scientifica» e su vari diritti: il diritto a un ambiente sano, il diritto all’alimentazione e il diritto alla salute. Su un punto il Tribunale è stato invece meno categorico: per quanto concerne la complicità in crimini di guerra i giudici hanno spiegato di «non essere in grado di formulare una conclusione definitiva». L’imputazione faceva riferimento al fatto che, tra il 1962 e il 1973, è stata proprio la Monsanto a fornire all’esercito americano l’Agente Orange, il famigerato defoliante contenente diossina utilizzato durante la guerra del Vietnam. I giudici hanno ad ogni modo sottolineato come «Monsanto sapeva a cosa sarebbe servito il suo prodotto e deteneva le informazioni concernenti le conseguenze sanitarie e ambientali della sua irrorazione».


Monsanto è un simbolo, il lupo cattivo per eccellenza delle multinazionali. D’altronde il suo curriculum parla da sé:  dall’Agente Orange al Pcb, dagli ormoni della crescita bovina agli Ogm e ai pesticidi tossici, la multinazionale di St. Louis è stata protagonista delle vicende più controverse della recente storia industriale. Negli anni ’80, Monsanto è la prima grossa azienda a comprendere il potenziale economico delle biotecnologie agricole. All’epoca la società americana era un’impresa tutta chimica che faceva del Roundup – l’erbicida più diffuso al mondo, oggi classificato “cancerogeno” – la principale fonte di guadagno.  Creò così le piante resistenti al Roundup facendo della vendita del pacchetto seme/pesticida il suo modello di business. L’agricoltura non fu più come prima. Con gli Ogm, il legame tra prodotto fitosanitario e seme brevettato diventa indissociabile. Le multinazionali chimiche cominciano ad acquisire decine di società produttrici di sementi. Tutto ciò ha creato una sorta di oligopolio nel settore dell’agrochimiche: poche aziende al mondo controllano il settore e impongono il loro modello industriale basato sulle monoculture, la chimica e la tecnolgia genetica. In generale, ad essere messo in causa dal Tribunale, è proprio questo tipo di agricoltura, dove i contadini sono sempre più dipendenti dal diktat delle multinazionali e dalle loro sementi biotech protette dai brevetti: «È il modello agro-industriale dominante che è denunciato tanto più che esistono altri modelli, quali l’agroecologia, che permettono di rispettare il diritto all’alimentazione».


Ma qual è l’importanza di un’operazione come quella del Tribunale Monsanto, da alcuni giudicata come un atto di puro militantismo e di linciaggio mediatico? «È vero, si tratta di un tribunale cittadino, o tribunale d’opinione, che non è una giurisdizione internazionale riconosciuta, come per esempio la Corte penale internazionale (Cpi)» spiega ad area Catherine Morand. Ma per la giornalista e membra della direzione dell’ong svizzera Swissaid occorre sottolineare che «i testimoni erano reali, così come i giudici (di alto livello) e il diritto internazionale sul quale si sono basati per rendere il loro avviso consultivo». Per Catherine Morand si può comparare la portata simbolica del Tribunale Monsanto a quella del Tribunale permanente dei popoli, che ha avuto un ruolo decisivo nell’evoluzione del diritto dei popoli autoctoni: «L’operazione permetterà di far evolvere il diritto internazionale al fine di permettere alle vittime delle multinazionali di ottenere giustizia, per dei crimini come i danni irreversibili all’ambiente e alla biodiversità, beni comuni dell’umanità, che al momento attuale la Cpi non è in grado di giudicare»


Uno degli obiettivi dell’operazione è proprio quello di fare evolvere il diritto internazionale per quanto concerne i danni creati all’ambiente. L’autrice, giurista e portavoce del movimento End Ecocide on Hearth Valérie Cabanes ci spiega l’importanza del fatto che il verdetto abbia riconosciuto il crimine di ecocidio, ossia la distruzione deliberata di un ambiente naturale: «I giudici, considerando lo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente, fanno capire che preservare l’integralità degli ecosistemi e un ambiente sano è la condizione primaria a tutti gli altri diritti umani». L’obiettivo è ora quello che la Cpi consideri l’ecocidio come quinto crimine internazionale contro la pace: «Ci vorrebbe che uno Stato chieda al segretario generale dell’Onu di rivedere lo statuto di Roma su cui si fonda la Cpi e che questa iniziativa sia seguita da un numero sufficiente di paesi» conclude Valérie Cabanes. La strada è ancora lunga anche se fa ben sperare la recente dichiarazione di Fatou Bensouda, procuratrice presso la Cpi, di volere concentrarsi maggiormente sui crimini ambientali, quali ad esempio l’accaparramento delle terre.

Pubblicato il

27.04.2017 15:10
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