«Nestlé ha violato il diritto del lavoro»

Il Tribunale d'Appello vodese dà ragione all'ex dirigente che denunciò carenze nei controlli e che fu mobbizzata

Dopo anni di battaglia giudiziaria Yasmine Motarjemi può finalmente gioire. Con una sentenza dello scorso 7 gennaio, un Tribunale vodese ha condannato Nestlé per violazione della legge svizzera sul lavoro e riconosciuto le responsabilità della multinazionale di Vevey. Ex responsabile della sicurezza alimentare della multinazionale, Yasmine Motarjemi era stata isolata, mobbizzata e poi licenziata a seguito delle sue denunce sui disfunzionamenti nei sistemi di controllo.

 

Da allora la donna non ha mai smesso di lottare e denunciare le persecuzioni di cui è stata vittima. Nel 2018, i giudici avevano già riconosciuto le vessazioni psicologiche, affermando però che Nestlé aveva rispettato la legge.

Decisa ad andare fino in fondo, la donna si è rivolta alla Corte d’appello di Losanna, giunta alla conclusione che la multinazionale non ha protetto la propria dipendente dalle molestie e che quindi ha violato il diritto del lavoro. Secondo la sentenza, Yasmine Motarjemi è stata sottoposta a «subdole molestie» e a «gravi sofferenze morali». Per i giudici la direzione di Nestlé non ha preso nessuna misura e per questo i suoi membri sono stati complici di questo sistema.

 

Una vittoria, quindi, per Yasmine Motarjemi, secondo cui le molestie «avevano lo scopo di mettere a tacere le disfunzioni della politica interna di sicurezza alimentare». Una vittoria anche per chi, in Svizzera e nel mondo, denuncia gravi disfunzionamenti riscontrati sul proprio posto di lavoro. Proprio per questo, oltre che per la sua tenacia, nel 2019 Yasmine Motarjemi è stata insignita di un prestigioso premio europeo dedicato ai whistleblower assieme a Julien Assange, fondatore di Wikileaks, e a Rui Pinto che con le sue rivelazioni ha svelato il marcio nel mondo del calcio.

Lo scorso anno area l'aveva intervistata nell'ambito di un approfondimento sul tema dei whistleblower in Svizzera. Riproponiamo l'intervista.

 

 

L'intervista

La mia lotta solitaria per la salute di tutti

 

Sono passati tredici anni da quando Yasmine Motarjemi ha iniziato a denunciare i disfunzionamenti di Nestlé. Ma al telefono, quando le chiediamo di ripercorrere la vicenda, la sua voce è ancora spezzata e tremolante. Non esita ad affermare che la sua vita è stata distrutta dalla vicenda che la vede protagonista. Yasmine Motarjemi è una whistleblower.

 

Dal 2000 al 2010 è stata la responsabile della sicurezza alimentare della multinazionale di Vevey, un colosso che in tutto il mondo vende alimenti a milioni di persone. Dopo aver lanciato l’allerta sulle gravi lacune nelle procedure e nei controlli, Yasmine Motarjemi è stata isolata, mobbizzata e licenziata. Ma non solo. Sola nella sua battaglia, nel silenzio dei colleghi e dell’opinione pubblica, questa donna coraggiosa è stata svuotata: di salute, di energia e di denaro. Ma non di dignità. Nel 2011, dopo aver rinunciato a un patteggiamento di 300mila franchi che non le riconosceva il torto morale, ha fatto causa contro Nestlé e contro il suo superiore diretto, Roland Stalder. Una saga giudiziaria durata otto anni e che si è chiusa (per ora) con una sconfitta: nelle motivazioni di una sentenza giunta l’estate scorsa, i giudici hanno sì riconosciuto le vessazioni psicologiche, ma hanno affermato che Nestlé ha rispettato la legge. La storia di Yasmine Motarjemi c’interpella. Non solo per il contenuto delle sue denunce – il malfunzionamento nei controlli sui prodotti alimentari – ma anche per il fatto che, come società, non siamo stati in grado di farci carico né di quanto denunciato né di proteggerla in quanto denunciatrice.


Quale è stata la sua prima reazione quando ha letto le motivazioni della sentenza?
Gli argomenti dei giudici sono contestabili. È stato riconosciuto il fatto che sono stata mobbizzata, ma ci si è rifiutati di condannare Nestlé e di risarcirmi. Il motivo è che non avrei accettato le misure prese da Nestlé. Tali proposte erano però lesive della mia dignità, si trattava di accettare attività impossibili da realizzare o posti umilianti. Inoltre, non è stato considerato il fatto che le mie denunce sono state fatte per svelare dei gravi disfunzionamenti. In generale, al di là del mio sentimento personale d’ingiustizia, penso che questa decisione rifletta una situazione grave per la reputazione della Svizzera e del suo sistema giudiziario. Pensi che l’avvocato di Nestlé nella mia causa, Rémy Wyler, professore all’Università di Losanna, è colui che ha scritto il libro di riferimento in Svizzera sul diritto del lavoro. I giudici hanno citato la sua interpretazione della legge come referenza per la loro decisione...


Ritorniamo all’inizio della vicenda. Come è arrivata a Nestlé e cosa l’ha spinta a fare le prime segnalazioni?
È Nestlé che è venuta a cercarmi  all’Oms. la sanità. Dopo parecchie insistenze da parte loro, ho accettato. Nel 2000 divento così Food Safety Manager. Subito mi accorgo di disfunzionamenti e lacune legati alle infrastrutture, alle procedure e anche a casi di negligenza. Il mio lavoro era di correggere tutto ciò: in gioco vi era la salute e la vita dei consumatori. In quegli anni sono successi vari scandali. Nestlé ha fallito i controlli su dei prodotti contaminati con la melanina o con agenti chimici provenienti dall’imballaggio, dei bambini sono soffocati a causa di prodotti mal concepiti.


Le sue segnalazioni si scontrano subito con delle resistenze?
Sì. Proprio in seguito ad uno scandalo in Italia, Nestlé ha legato i bonus dei manager al ritiro (o no) dei prodotti dal mercato. Ciò ha fatto passare ancor di più la sicurezza alimentare in secondo piano. Ai miei superiori il mio lavoro dava fastidio e la mia posizione sulla sicurezza alimentare era considerata come un ostacolo ai loro interessi.


E cosa è successo?
Invece di licenziarmi – ciò che in Svizzera è facilissimo – mi hanno isolato e hanno cominciato a discreditarmi e ad ignorarmi. Quando mi sono resa conto che non potevo fare il mio lavoro e che, per questo, degli incidenti non sono potuti essere evitati, ho suonato l’allarme.


Diventa così una whistleblower...
Esatto. Ma lo faccio nel rispetto delle procedure. D’altronde il codice di condotta di Nestlé prevede di rapportare le violazioni riscontrate (e prevede anche il divieto di rappresaglie nei confronti dei salariati che denunciano). Tappa per tappa, direttore per direttore su su fino al Ceo, do l’allerta a tutti i livelli, dando a ciascuno il tempo di reagire. Al contrario, mi hanno tolto dall’organigramma, degradato a compiti impossibili da realizzare o proponendomi impieghi definiti dai dirigenti stessi come “ingrati”. Infine sono stata licenziata per divergenze d’opinione sulla sicurezza alimentare.
Qui comincia l’ultima fase, quella della denuncia.
Sì, sono gli ultimi otto anni della mia vita. Un periodo che non esito a definire distruttivo. Ho pensato diverse volte al suicidio. Il mio stato di salute è peggiorato. Sono stata a mia volta denunciata per violazione del segreto professionale e sono stata abbandonata dalla mia protezione giuridica. Ho speso le mie economie e tutte le mie energie in questa vicenda.


Ne valeva la pena?
Quando sono stata licenziata mi hanno levato l’impiego ma non la professione. Ho sentito il dovere di continuare a denunciare i disfunzionamenti e portare delle soluzioni. Sono l’editrice di due libri sul tema della sicurezza alimentare che sono oggi un riferimento. Ora, però, la mia sete di giustizia per la società continua. Ho infatti fatto ricorso contro la decisione del tribunale. Il verdetto, pur riconoscendo le violenze psicologiche che ho subito, solleva numerose questioni sui diritti umani, i diritti degli impiegati, la protezione dei whistleblower e la gestione della sicurezza degli alimenti. Non potevo fermarmi ora.                 

 

Pubblicato il

22.01.2020 15:56
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