«Non piccolo ma bello». Il Festival di Locarno? ottimo esempio di cultura elitaria

«Not small, but beautiful». Così il regista ticinese Villi Hermann, se dovesse scegliere uno slogan, definirebbe il Festival internazionale del film di Locarno. Un festival che, se è importante per un gran numero di spettatori, soprattutto giovani, che nei dieci giorni d’agosto fanno spesso il loro primo incontro con culture e linguaggi altri, lo è a maggior ragione per i registi e gli altri professionisti del cinema, che hanno a Locarno un’occasione unica d’incontro e di confronto. Proprio Locarno è stato, con il Pardo d’argento vinto nel 1977 per «San Gottardo», uno snodo centrale nella vita professionale di Hermann. 25 anni dopo gli chiediamo che cosa è rimasto di quel premio e perché a suo avviso questo sia un festival «non piccolo, ma bello». Il Festival di Locarno ha ormai un budget di oltre 7 milioni di franchi. Si giustifica ancora questa spesa? La cultura costa: se la si vuole, bisogna pagarne il prezzo. Locarno non è soltanto cinema: è un evento culturale trasversale, con concerti, conferenze e mostre, e che stimola incontri informali fra artisti che altrimenti non avrebbero luogo. Inoltre è un evento che permette di portare una volta ogni tanto anche il cinema (magari svizzero) sulle prime pagine dei nostri giornali. Il Festival infine è un ottimo esempio di cultura non elitaria, che fa capire a tutti, specialmente alla classe politica, che vale la pena investire nella cultura. Oggi in Ticino si parla del Festival di Locarno solo in termini di promozione economica e dell’immagine del Cantone: come mai s’è spento il dibattito culturale sui contenuti e sulla funzione della manifestazione? È un problema molto serio che però non riguarda solo il cinema e solo il Ticino: semplicemente dei creatori, della creazione artistica, non si discute più. È fuori moda. L’Expo lo dimostra: prima tutti la criticavano per i costi senza conoscerne i contenuti, oggi che i contenuti sono noti tutti sono contenti perché l’esposizione ha un buon successo di pubblico e nessuno parla dei temi che tratta. Quanto agli intellettuali ticinesi, è raro che in passato abbiano davvero avuto voce in capitolo: oggi hanno forse più voglia di creare senza necessariamente esporsi. Con che criterio sceglie i festival a cui presentare i suoi film? Mi piace ritornare dove sono già stato perché, conoscendo le persone e i meccanismi, il lavoro sul film risulta meno complicato. Decisivo è comunque il momento in cui è finito il film, anche se l’offerta di selezione per un festival può indurre ad accelerare i tempi di chiusura di un lavoro. Fondamentale è però ricordarsi che sta al regista cogliere la chance che un festival gli offre: se non hai alle spalle una lobby tanto potente da poter imporre alla signora Bignardi di mettere il tuo film in Piazza il sabato sera, tocca a te creare l’evento attorno al tuo film. Quando selezionarono il mio «Es ist kalt in Brandenburg» alla Semaine de la Critique di Cannes fu un’occasione persa perché non sapevamo assolutamente cosa fare per organizzare interviste e ottenere articoli sui giornali o passaggi televisivi: imparata la lezione, mi mossi molto diversamente con «Matlosa» in Concorso a Venezia, puntando soprattutto sugli attori italiani Haber e Modugno. Purtroppo i registi svizzeri devono imparare questa lezione ogni volta a loro spese. Che importanza ebbe nella sua carriera il Pardo d’argento di «San Gottardo»? Quel premio allora era soltanto un pezzo di carta, oggi è accompagnato da uno chèque di alcune decine di migliaia di franchi, che sono pur sempre importanti specialmente per registi di Paesi poveri. Diciamo che ogni premio è un buon biglietto da visita per i prossimi film. Questo vale specialmente in Svizzera, dove l’80 per cento dei costi di produzione è coperto da sovvenzioni pubbliche o private assegnate spesso da persone che del settore non conoscono altro che il Festival di Locarno. Anche per tecnici e attori un premio ad un festival prestigioso è una garanzia di qualità se non conoscono il tuo lavoro: un Pardo può quindi facilitare sensibilmente la continuazione della carriera. A me poi si aprirono le pagine culturali dei quotidiani italiani: se ancora oggi Kezich o Borelli scrivono di me è perché si ricordano di quel mio film premiato 25 anni fa a Locarno... Cosa dire del fatto che da «Holozän» di Heinz Bütler e Manfred Eicher, ossia da 10 anni, la Svizzera manca dal palmarès del Festival di Locarno? Intanto che Locarno è un Festival serio, che non garantisce un premietto ad un film svizzero come invece sembra fare Venezia con i prodotti italiani. Forse a Locarno c’è uno spirito missionario eccessivo: il desiderio d’apertura verso l’esotico diventa quasi una missione, con premi talvolta discutibili ad opere provenienti da Paesi extraeuropei. Negli ultimi anni poi c’è stato un rigore ancora maggiore nei criteri di selezione. Io trovo positivo che ci siano ad esempio tre film svizzeri in Concorso: questo permette a tre gruppi di professionisti del cinema di fare l’esperienza, senza troppi rischi, di un lavoro di promozione serio in un ambiente sempre più spietato, consentendo quei piccoli errori che, se commessi all’estero, rappresentano la fine della carriera. Il problema, per i cineasti svizzeri, è che manca del tutto una macchina promozionale in grado di sostenerli. È questo che ha bloccato Fredi Murer dopo aver vinto il Pardo d’oro nell’85 con «Höhenfeuer»: per due anni ha dovuto fare da solo tutto il lavoro di promozione e diffusione del suo film, perdendo contatto con la realtà produttiva. Nel caso di Murer il Pardo è stato più un male che un bene. Alain Tanner ha recentemente affermato che «i festival, anche Locarno che era un buon punto d’incontro, diventano delle grandi macchine e stanno perdendo la loro identità». È d’accordo? Constato, senza volerlo giudicare, che lui 30 anni fa rimaneva al Festival per tutti i dieci giorni, oggi è già tanto se ci resta tre giorni: fare incontri in queste condizioni è assai difficile. Locarno, al di fuori della Piazza e del main-stream della produzione festivaliera, offre nicchie straordinarie e vitalissime per chi fa il mestiere di regista e vuole confrontarsi con dei colleghi come Boris Lehmann o gli Straub. Eppoi le persone che interessano a Tanner lui le incontrava ai festival vent’anni fa, oggi forse è più facile che le incontri alle retrospettive. Se si seguono i Pardi di domani si nota il piacere che hanno i giovani registi di incontrarsi, di discutere e confrontarsi sul loro mestiere e sul cinema del loro tempo: sono euforici come lo eravamo noi negli anni ‘70. Condivide l’opinione dell’ex direttore di Locarno Marco Müller secondo cui i festival di nuovo cinema (quali Locarno, Rotterdam o Pesaro) hanno ormai perso la loro funzione? No. Se sono un piccolo produttore indipendente non ho dubbi che, piuttosto che essere uno dei trecento a Cannes, preferisco giocarmi le mie carte a Locarno, dove ho più possibilità di essere notato senza uno sforzo promozionale sproporzionato. Certo, forse i festival di nuovo cinema non hanno più la funzione esclusiva di scopritori di nuovi genietti del cinema alla loro opera prima: ma anche uno come Aki Kaurismäki ha dovuto frequentare per 30 anni proprio questi festival prima di essere finalmente notato anche a Cannes. «Progetto Afghanistan»: il cinema di Kabul alla kermesse cinematografica Una panoramica sul cinema afghano degli ultimi anni, letteralmente sepolto dal regime talebano e dissotterrato negli ultimi mesi. Sarà questo l’evento mediatico del Festival internazionale del film di Locarno 2002, in calendario dall’1 all’11 agosto. Si tratterà di una giornata, l’ultima, dedicata al cinema dell’Afghanistan che, partendo dal documentario dell’inviato dell’Ansa Beniamino Natale che ha filmato il ritrovamento di una serie di pellicole e nastri inediti girati negli ultimi anni, proporrà una sintesi di quanto ha prodotto la cinematografia di quel Paese in un regime di censura quasi totale. Il «Progetto Afghanistan» del Festival di Locarno, che vanta la collaborazione del neodirettore della cineteca di Kabul, mostrerà materiali molto discontinui nella qualità ma interessanti per il loro valore di testimonianza e di documentazione, e si completerà con una tavola rotonda. Per il resto, ad un mese dall’inizio del Festival e a dieci giorni dalla presentazione del programma, nulla si sa della selezione ufficiale. Si sa però che è cambiata la struttura dei premi, diventati sì più ricchi, ma non meno confusi. Così se il Pardo d’oro sale a 90 mila franchi, e deve premiare il miglior film in assoluto del Concorso, ecco che ci sarà una bella confusione per capire quale fra i tre premi minori (ognuno dotato di 30 mila franchi) sarà il secondo riconoscimento: il Premio speciale della Giuria Swiss «per il film che meglio interpreta lo spirito di comunicazione fra popoli e culture», il Pardo d’argento al secondo miglior film o il Pardo d’argento alla miglior prima o seconda opera? E poi: i premi saranno cumulabili? E che criterio di giudizio è mai, in un festival del film generalista, quello della comunicazione fra i popoli? Quanto alla Giuria, i nomi non sono proprio di primissimo rango e non risvegliano certo la fantasia dei più, ma forse si arriverà così a formare un gruppo più affiatato di quello che costituì la Giuria 2001: i giurati saranno il produttore Cedomir Kolar, già proclamato presidente, l’attore Bruno Ganz, il produttore e attore Aamir Khan, il giornalista Emanuel Levy, il regista Jafar Panahi, l’attrice e giornalista Niloufar Pazira e il regista Bela Tarr. Quanto all’ex Concorso dei «Cineasti del Presente», esso diventa un Concorso video di nome e non solo di fatto. Nelle sezioni non competitive o lontane dal glamour sempre più banalotto (anche in termini cinematografici) di Piazza Grande il Festival continuerà ad offrire rivoli di grande pregio. A cominciare dalle due retrospettive dell’edizione 2002: una dedicata al regista hollywoodiano Allan Dwan, 40 film fra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 con star come Shirley Temple, Tyrone Power, John Wayne, Rita Hayworth e Gloria Swanson, per portare anche quest’anno il nome di Locarno sulla stampa Usa; l’altra, intitolata «Indian Summer» che allineerà oltre 30 titoli scelti fra gli ultimi 25 anni di una sterminata produzione. Quanto al Pardo d’onore, sarà ancora una strizzatina d’occhio agli Usa, con Sydney Pollack, rappresentante di punta della New Hollywood. Nuovo è il premio intitolato a Raimondo Rezzonico, destinato intelligentemente a sottolineare i meriti di un produttore indipendente: quest’anno sarà il portoghese Paulo Branco. Di grande interesse infine i nomi degli scrittori invitati nell’ambito del cantiere di «In progress» (curato da Harald Szeeman per le arti visive): saranno Antonio Tabucchi, Arnold Wesker, Abraham Yeoshua, Petro Markaris, Anita Desai e Martin Suter. hgf

Pubblicato il

05.07.2002 03:00
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