"Non tornerò laggiù"

C’è qualcosa che spaventa i clandestini più di un ordine di espulsione: la fame. Lo dicono e lo ripetono anche gli equadoregni espulsi dal Ticino, venuti qui in cerca di un riscatto umano, seppur minimo. Riscatto per le loro diverse storie singole, tutte legate dal comune denominatore della miseria. Come la storia di Simon (cfr. area del n. 3 del 17.01.03) e come la storia di Margarita, una ragazza madre equadoregna che, se rispedita in Patria, rischia la propria incolumità. Da mesi il Movimento dei senza voce (Mdsv), che sostiene gli equadoregni in Ticino, sollecita il Consiglio di Stato affinché revochi l’ordine e riconsideri la situazione di questa comunità. Al loro fianco si è schierato di recente anche il Partito socialista ticinese che, per mano della presidente Anna Biscossa, ha scritto una lettera di protesta al Consiglio di Stato in cui, tra l’altro, esprime «la propria delusione e disapprovazione per la decisione presa e per la modalità con la quale è stata fino ad oggi gestita la presenza di cittadini ecuadoriani nel nostro Cantone» e chiede che si rinunci ad ogni loro allontanamento forzato. E d’accordo con il Mdsv, il Ps invita al rispetto dei diritti umani fondamentali. Una richiesta in sintonia con la Convenzione sui diritti degli emigranti approvata dall’Onu nel 1990 e che entrerà in vigore nel luglio 2003. In Ticino, gli equadoregni chiedono il permesso di sostare, come artisti di strada, solo pochi mesi, il tanto che basta per racimolare qualche spicciolo che permetta loro di sopravvivere. «È importante che si aiutino queste comunità sul luogo d’origine», avevano risposto le autorità governative. E di recente da Caraguela – paese di provenienza degli equadoregni – è giunto al Mdsv un progetto di rete fognaria per il paese. «Speriamo – ci dice un esponente dell’Mdsv – che il Governo ora sia conseguente ed offra il suo aiuto concreto a questa comunità che necessita di tutto». «Non posso tornare in Ecuador, non posso». La voce di Margarita* si fa un sussurro e il suo incerto sorriso accoglie una smorfia che prelude al pianto. Ma le lacrime non sgorgano, sgorgano invece parole intrise di dolore. E con gli occhi si aggrappa a Maddalena, che è lì accanto e che la incoraggia a continuare. Ha il volto di una ragazzina la giovane equadoregna ma nei suoi 23 anni c’è già lo sfondo della durezza di un’esperienza frammista di violenza e dolcezza. La violenza è lo stupro subito e la dolcezza è Pablo, il suo bimbo di sette mesi che, contando solo sulla forza della sua tenacia, è riuscita a non farsi portare via. Margarita fa parte del gruppo degli equadoregni colpiti da un’ordine di espulsione. Un ordine che la consegnerebbe, una volta in Ecuador, alla vendetta di alcuni suoi compaesani dai quali lei è considerata una poco di buono. Dopo aver sostato in Italia e Spagna, Margarita è arrivata in Ticino circa due anni fa nella speranza di raggranellare qualche spicciolo suonando – come tanti altri suoi compatrioti – il charango all’uscita dei supermercati del Cantone. Senza un mestiere in mano, analfabeta, Margarita tenta di attenuare la sua vulnerabilità mimetizzandosi nel gruppo di equadoregni. Non ha altra scelta se non quella di avere fiducia in persone con cui condivide non solo le origini ma anche la sorte di clandestina. Ingenuità, sprovvedutezza la rendono protagonista di una triste vicenda di abuso, ad opera di un suo compaesano. È la miseria nella misera. Da qui parte Margarita per illustrare, in una sorta di flash back, la sua storia. «Facevo tanta fatica a sopportare la nostalgia – ci racconta mentre allatta il suo piccolo irrequieto per la fame – e mi confortava sapere che, nel gruppo degli equadoregni, c’era un ragazzo che sembrava preoccuparsi disinteressatamente di me. Diceva che gli mancava sua moglie e che capiva la mia sofferenza per il distacco da mia madre. Col tempo ho cominciato a fidarmi di lui come un fratello. Non avrei mai potuto immaginare il male che poi mi avrebbe fatto». Margarita non sa niente in materia di sesso ed è cresciuta ignorando tutto sulla gravidanza. Madre vedova e cinque fratelli, non ha avuto quella che si suole chiamare una vita “normale”. Anche se lì, da dove viene lei, Caraguela, quella è proprio la norma: nessuna scuola e la miseria come tata. All’età di tre anni fa il suo primo “apprendistato”, impara ad intrecciare fili colorati che diventeranno indumenti: questa è l’unica educazione che le è dato di ricevere. Continua a fare giacche, cappellini, ponchos fino al ventunesimo anno garantendosi coi quattro spiccioli guadagnati un pasto a giorni alterni. Ed è allora che decide, sulla scia di conoscenti e parenti, di emigrare. La famiglia la sostiene, vende i pochi maiali rimasti e le permette di acquistare un biglietto per l’Italia. Margarita parte con la speranza che in Europa almeno uno scampolo dei suoi sogni possa mettere radici. Approda nella disillusione, fatta di leggi disumane che non accolgono chi ha fame, chi arriva in cerca di un umanissimo riscatto. Cerca una casa e trova l’addiaccio. Sono passati più di due anni da allora. E adesso che la stagione si è fatta mite e che un tetto sopra il capo ce l’ha, resta un groppo di gelo e di paura a farla tremare. Il suo sguardo scava nella sua nicchia segreta e ripesca la sua matassa di violenza e assurdità. Abbassa il tono, mentre con la mano accarezza il suo bimbo quasi a consolarlo di sofferenze future. Parla in un filo di voce. «Quel ragazzo di cui mi fidavo – dice d’un fiato – era sposato. Una sera mi ha offerto una coca cola e solo quattro mesi dopo, quando la pancia ha cominciato ad ingrossarsi e realizzavo di non avere più le mestruazioni, ho cominciato a capire cosa mi stava succedendo. Io non ho mai avuto un ragazzo e neanche adesso ce l’ho. Di quella notte della coca cola non ricordo niente. La mia famiglia – saputo della mia maternità - mi assillava, tutti mi aggredivano dicendomi che non potevo tenere quel bambino, che dovevo darlo in adozione. Mai e poi mai mi sarei separata dal mio Pablo e l’ho tenuto con me. Mi dicevo che anche se tutti i miei parenti mi avessero abbandonata, io non avrei abbandonato il mio piccolo». Noto il padre, il mistero della gravidanza rimane comunque insoluto fino a quando non nasce il bambino. E qui subentra il tradimento e fa capolino una faccenda poco chiara di biechi affari che non risparmiano la vendita di neonati. «Nella nostra comunità le voci girano e alla nascita del bambino ho scoperto delle cose molto brutte». Non riesce e non può dirmi oltre. La materia si fa davvero delicata e qui Margarita si emoziona. Allora Maddalena parla per lei. «Quella coca cola – spiega la rappresentante del Movimento dei senza voce – conteneva sonnifero che ha reso completamente incosciente Margarita. Che abbia subito violenza (è questo è il lato dolorosamente assurdo della faccenda) lo ha realizzato a gravidanza inoltrata. In quel periodo, Margarita aveva troppa paura per confidare a qualcuno ciò che le era successo. Si isolava e cercava di nascondere a tutti il suo stato interessante». La fine della sua gestazione ha coinciso con lo sgombero del Maglio dove lei si trovava insieme ai suoi compaesani. «Un giorno, - continua Maddalena – sentendosi male chiede aiuto a una ragazza del Molino che, sbalordita dalla rivelazione, l’accompagna subito dove due ore dopo Margarita partorisce. Da lì lo choc di questa ragazza equadoregna che solo da qualche mese aveva capito che avrebbe dato alla luce un bambino. I pochi giorni di tranquillità li ha vissuti lì, in ospedale dove né parenti né altri potevano raggiungerla o minacciarla». Margarita a questo punto vuole intervenire: «I miei fratelli mi rifiutavano perché avevo avuto un figlio da uno sposato, come una poco di buono. Non hanno mai voluto sentire ragioni e a poco è valso tentare di spiegare loro quello che avevo scoperto troppo tardi: di essere stata usata e tradita. Solo ora cominciano ad avere un po’ di comprensione per me». Si sente sola e vorrebbe rivedere sua madre ma non quando potrà rincontrarla. Se dovesse ritornare laggiù, in Ecuador, la moglie dell’uomo che ha abusato di lei e tutta la sua famiglia sono pronti a fargliela pagare. E minacciano lei e i suoi fratelli. «Tengo miedo, ho paura», dice con gli occhi smarriti e un impercettibile tremolio del labbro. «Abbiamo fatto appello alle autorità esponendo il suo caso – interviene Maddalena – e forse qualcosa, per una volta, si smuoverà in suo favore. Tanto più che ora c’è una famiglia disposta ad offrirle alloggio e lavoro. Rimandarla indietro sarebbe un atto criminale, esporla ad un grave pericolo. Margarita ha sulle spalle il peso di un incubo che forse potrà essere “domato”, ma di quante altre vicende dolorose, povere è fatta la maggior parte della storia dei clandestini?». Quando ce ne andiamo sentiamo i versetti allegri di Pablo che sguazza nel suo bagnetto. E i suoi spruzzi, per un attimo, lavano via la tristezza di Margarita. Chissà che la sua vita non riparta da lì, da quel sorriso. *I nomi sono stati modificati allo scopo di tutelare la privacy dell’intervistata. Le identità vere sono note alla redazione.

Pubblicato il

06.06.2003 03:30
Maria Pirisi
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