Non tutti gli esuli sono uguali

Per lo storico Sacha Zala una tradizione umanitaria svizzera esiste, anche se va analizzata criticamente, e si fa generosa quando vi è un’identificazione con i popoli invasi anche dal punto di vista ideologico

Bomba sul tran tran, pardon, sul fronte occidentale. È guerra, una guerra che questa volta rimbomba, scheggiando anche il nostro quotidiano. Lo scorso 24 febbraio, e sembra già un secolo fa, con un messaggio preregistrato indirizzato alla nazione, ma soprattutto al mondo, Putin annunciava l’inizio di “un’operazione militare speciale”. Un’operazione militare talmente speciale che altro non è, che una sporca guerra per dirla a modo nostro. Una “classica guerra d’invasione che non vedevamo da tempo”, per usare invece le parole precise dello storico Sacha Zala. E la neutralità? Con il direttore del gruppo di ricerca dei Documenti diplomatici svizzeri (Dodis) e professore all’Università di Berna, abbiamo parlato anche di uno dei miti fondativi del paese, di profughi, politica d’accoglienza e… di Svizzera, insomma.

 

Professor Zala, l’Ucriana è sotto assedio, la Russia la sta invadendo e il popolo svizzero segue con grande partecipazione lo svolgersi degli eventi. Una solidarietà corale che si sta traducendo con una serie di iniziative partite dal basso (raccolte di beni di prima necessità, collette, privati cittadini che offrono letti a casa propria per gli esuli), mentre Berna sta tirando fuori dal cassetto il permesso S, uno statuto di protezione mai utilizzato in precedenza, che dà diritto al soggiorno nel nostro paese senza avviare una procedura d’asilo ordinaria. Bene. Ma come si spiega questo pathos, dal momento che le guerre non sono una novità del 2022? Qual è la leva che ha mosso l’emotività?

La novità è una non novità, nel senso che siamo di fronte a una classica guerra fra due stati, di cui abbiamo soltanto memoria storica, ma con la quale non eravamo più confrontati da tempo. L’invasione dell’Ucraina è di fatto la prima guerra di tipo convenzionale alla quale assistiamo da vicino dopo tanti anni. Certo, dalla fine della guerra fredda, ci sono stati altri terribili conflitti, ma si è trattato di casi di dissoluzione di stati che, seppur caratterizzati da ingerenze esterne, nascevano dall’interno oppure da conflitti legati a gruppi terroristici. Le immagini della frontiera che viene divelta, riportano a un’idea di guerra classica, che tanti ritenevano superata. Ritornano i russi di sovietica memoria sui carri armati e con essi una simbologia, e dei timori, che hanno accompagnato parte della storia svizzera dello scorso secolo.

 

Il nemico rosso esiste ancora nell’immaginario collettivo nazionale? E se sì, si può spiegare la solidarietà ai nuovi esuli anche attraversouna componenze di identificazione ideologica? Gli ucraini visti come gli ungheresi invasi dalle truppe sovietiche nel 1956?

L’identificazione ideologica con gli ungheresi fu fortissima per più motivi. Si era in piena guerra fredda e il “nemico” era, nonostante la neutralità, in maniera chiara quello rosso, che coincideva con il comunismo di cui la Svizzera aveva una paura viscerale. Una paura che, in ultima analisi, era legata alla questione della proprietà privata, un concetto molto radicato nel nostro paese. L’anticomunismo e il fatto che gli ungheresi rappresentassero un’élite, perché di regola molto qualificati, e allo stesso tempo la Svizzera avesse bisogno di manodopera, posero le condizioni per un’accoglienza direi trionfale dei richiedenti l’asilo. La componente ideologica giocò un ruolo fondamentale: la stessa apertura non fu infatti riservata qualche anno dopo ai cileni per i quali fu solo la sinistra a muoversi. Con gli ucraini, con i quali non da ultimo c’è un’identificazione quale popolo europeo, anche per una sorta di sindrome del piccolo Davide contro il grande Golia, nella “piccola” Svizzera si sta assistendo a una risposta molto solidale.

 

Nel 2006 il popolo svizzero con una forte maggioranza ha accettato una revisione della legge per inasprire le condizioni nella politica d’asilo e degli stranieri. Inciderà nella conta dei profughi che si possono accogliere?  

La votazione del 2006 è stata legata alla percezione di una massiccia presenza di popolazione straniera in Svizzera. Il dibattito scaturito ha per finire un forte nesso con l’integrazione europea, e quindi la libera circolazione delle persone. Agli inizi degli anni 90 la Svizzera si interroga sullo Spazio economico europeo e i dilemmi del Consiglio federale sono palpabili: in previsione di dover accogliere un numero significativo di persone provenienti dall’Europa, in seguito alla libera circolazione, si sviluppano le misure per limitare gli afflussi delle persone al di fuori della ristretta cerchia europea. Stiamo parlando di politica migratoria: il numero di stranieri aumenta non da ultimo perché la Svizzera è molto restia a concedere la cittadinanza.

 

Professor Zala, ma il mito della Svizzera, terra d’accoglienza corrisponde a realtà o è tutto un artifizio?

Una tradizione umanitaria in Svizzera certamente esiste, va riconosciuta ma non enfatizzata e, soprattutto va analizzata criticamente. Le forze liberali, i rifugiati politici e gli esuli che nel XIX secolo trovano rifugio in Svizzera sono elementi fondamentali per l’autodefinizione del nuovo Stato nazionale nel 1848. La Svizzera, che ha rischiato dei conflitti per l’ospitalità concessa a persone in fuga dai paesi vicini, ma anche ad anarchici, fino ad accogliere personaggi come Lenin, mostra in modo tangibile con la sua politica d’asilo la propria sovranità.

 

La Svizzera e la neutralità. Ha fatto molto scalpore a livello internazionale la decisione del Consiglio federale di adottare sanzioni contro la Russia, in linea con l’Ue. Che cosa rappresenta la neutralità svizzera? Una questione di interpretazione o un mito?  

I titoli apparsi su giornali come il “New York Times” o il “Post”, la dicono lunga sulla percezione della Svizzera all’estero. Già negli anni 90 la Svizzera aveva seguito l’allora Comunità Europea, applicando sanzioni per la guerra nell’ex Iugoslavia. La neutralità è reale nel momento in cui parliamo di un narrativo per la coesione nazionale: in questo senso ha qualcosa di geniale, ma dal punto di vista giuridico la sua valenza è minimissima. La definizione di neutralità emerge con gli accordi dell’Aia del 1907. Che cosa significava? Praticamente soltanto che i reggimenti di fanteria delle potenze estere che avessero riparato in Svizzera, sarebbero stati neutralizzati fino alla fine del rispettivo conflitto. Proprio perché la neutralità dal punto di vista del diritto internazionale ha una valenza assolutamente ridotta, e ciò era evidente a tutti i “sacerdoti” che hanno costruito questa “ortodossia” politica della neutralità, si è definita in Svizzera una differenza fra la neutralità di diritto, appunto minimale, e la politica della neutralità, che permette di legittimare le azioni politiche. Se la politica di neutralità è flessibile, a dipendenza del contesto in cui la si usa, l’essenza del discorso non si può toccare, perché questa è diventata un elemento distintivo del paese, un elemento che unisce. Noi parliamo continuamente di neutralità, ma ognuno pensa a qualcosa di completamente diverso. È come un sacco: la sua forma è ben definita, ma lo si può riempire come si vuole. E così la politica della neutralità è spesso stata definita ad hoc a seconda degli interessi in gioco e delle esigenze politiche del momento. La neutralità è uno strumento narrativo per legittimare quello che la politica fa ed è funzionale alla prudenza politica di un paese come la Svizzera. Di fatto, la Svizzera ha sempre perseguito una politica estera marcata da una grande prudenza: invece semplicemente di dirlo, si è sempre nascosta dietro all’argomento della neutralità.

Bomba sul tran tran, pardon, sul fronte occidentale. È guerra, una guerra che questa volta rimbomba, scheggiando anche il nostro quotidiano. Lo scorso 24 febbraio, e sembra già un secolo fa, con un messaggio preregistrato indirizzato alla nazione, ma soprattutto al mondo, Putin annunciava l’inizio di “un’operazione militare speciale”. Un’operazione militare talmente speciale che altro non è, che una sporca guerra per dirla a modo nostro. Una “classica guerra d’invasione che non vedevamo da tempo”, per usare invece le parole precise dello storico Sacha Zala. E la neutralità? Con il direttore del gruppo di ricerca dei Documenti diplomatici svizzeri (Dodis) e professore all’Università di Berna, abbiamo parlato anche di uno dei miti fondativi del paese, di profughi, politica d’accoglienza e… di Svizzera, insomma.

 

Professor Zala, l’Ucriana è sotto assedio, la Russia la sta invadendo e il popolo svizzero segue con grande partecipazione lo svolgersi degli eventi. Una solidarietà corale che si sta traducendo con una serie di iniziative partite dal basso (raccolte di beni di prima necessità, collette, privati cittadini che offrono letti a casa propria per gli esuli), mentre Berna sta tirando fuori dal cassetto il permesso S, uno statuto di protezione mai utilizzato in precedenza, che dà diritto al soggiorno nel nostro paese senza avviare una procedura d’asilo ordinaria. Bene. Ma come si spiega questo pathos, dal momento che le guerre non sono una novità del 2022? Qual è la leva che ha mosso l’emotività?

La novità è una non novità, nel senso che siamo di fronte a una classica guerra fra due stati, di cui abbiamo soltanto memoria storica, ma con la quale non eravamo più confrontati da tempo. L’invasione dell’Ucraina è di fatto la prima guerra di tipo convenzionale alla quale assistiamo da vicino dopo tanti anni. Certo, dalla fine della guerra fredda, ci sono stati altri terribili conflitti, ma si è trattato di casi di dissoluzione di stati che, seppur caratterizzati da ingerenze esterne, nascevano dall’interno oppure da conflitti legati a gruppi terroristici. Le immagini della frontiera che viene divelta, riportano a un’idea di guerra classica, che tanti ritenevano superata. Ritornano i russi di sovietica memoria sui carri armati e con essi una simbologia, e dei timori, che hanno accompagnato parte della storia svizzera dello scorso secolo.

 

Il nemico rosso esiste ancora nell’immaginario collettivo nazionale? E se sì, si può spiegare la solidarietà ai nuovi esuli anche attraversouna componenze di identificazione ideologica? Gli ucraini visti come gli ungheresi invasi dalle truppe sovietiche nel 1956?

L’identificazione ideologica con gli ungheresi fu fortissima per più motivi. Si era in piena guerra fredda e il “nemico” era, nonostante la neutralità, in maniera chiara quello rosso, che coincideva con il comunismo di cui la Svizzera aveva una paura viscerale. Una paura che, in ultima analisi, era legata alla questione della proprietà privata, un concetto molto radicato nel nostro paese. L’anticomunismo e il fatto che gli ungheresi rappresentassero un’élite, perché di regola molto qualificati, e allo stesso tempo la Svizzera avesse bisogno di manodopera, posero le condizioni per un’accoglienza direi trionfale dei richiedenti l’asilo. La componente ideologica giocò un ruolo fondamentale: la stessa apertura non fu infatti riservata qualche anno dopo ai cileni per i quali fu solo la sinistra a muoversi. Con gli ucraini, con i quali non da ultimo c’è un’identificazione quale popolo europeo, anche per una sorta di sindrome del piccolo Davide contro il grande Golia, nella “piccola” Svizzera si sta assistendo a una risposta molto solidale.

 

Nel 2006 il popolo svizzero con una forte maggioranza ha accettato una revisione della legge per inasprire le condizioni nella politica d’asilo e degli stranieri. Inciderà nella conta dei profughi che si possono accogliere?  

La votazione del 2006 è stata legata alla percezione di una massiccia presenza di popolazione straniera in Svizzera. Il dibattito scaturito ha per finire un forte nesso con l’integrazione europea, e quindi la libera circolazione delle persone. Agli inizi degli anni 90 la Svizzera si interroga sullo Spazio economico europeo e i dilemmi del Consiglio federale sono palpabili: in previsione di dover accogliere un numero significativo di persone provenienti dall’Europa, in seguito alla libera circolazione, si sviluppano le misure per limitare gli afflussi delle persone al di fuori della ristretta cerchia europea. Stiamo parlando di politica migratoria: il numero di stranieri aumenta non da ultimo perché la Svizzera è molto restia a concedere la cittadinanza.

 

Professor Zala, ma il mito della Svizzera, terra d’accoglienza corrisponde a realtà o è tutto un artifizio?

Una tradizione umanitaria in Svizzera certamente esiste, va riconosciuta ma non enfatizzata e, soprattutto va analizzata criticamente. Le forze liberali, i rifugiati politici e gli esuli che nel XIX secolo trovano rifugio in Svizzera sono elementi fondamentali per l’autodefinizione del nuovo Stato nazionale nel 1848. La Svizzera, che ha rischiato dei conflitti per l’ospitalità concessa a persone in fuga dai paesi vicini, ma anche ad anarchici, fino ad accogliere personaggi come Lenin, mostra in modo tangibile con la sua politica d’asilo la propria sovranità.

 

La Svizzera e la neutralità. Ha fatto molto scalpore a livello internazionale la decisione del Consiglio federale di adottare sanzioni contro la Russia, in linea con l’Ue. Che cosa rappresenta la neutralità svizzera? Una questione di interpretazione o un mito?  

I titoli apparsi su giornali come il “New York Times” o il “Post”, la dicono lunga sulla percezione della Svizzera all’estero. Già negli anni 90 la Svizzera aveva seguito l’allora Comunità Europea, applicando sanzioni per la guerra nell’ex Iugoslavia. La neutralità è reale nel momento in cui parliamo di un narrativo per la coesione nazionale: in questo senso ha qualcosa di geniale, ma dal punto di vista giuridico la sua valenza è minimissima. La definizione di neutralità emerge con gli accordi dell’Aia del 1907. Che cosa significava? Praticamente soltanto che i reggimenti di fanteria delle potenze estere che avessero riparato in Svizzera, sarebbero stati neutralizzati fino alla fine del rispettivo conflitto. Proprio perché la neutralità dal punto di vista del diritto internazionale ha una valenza assolutamente ridotta, e ciò era evidente a tutti i “sacerdoti” che hanno costruito questa “ortodossia” politica della neutralità, si è definita in Svizzera una differenza fra la neutralità di diritto, appunto minimale, e la politica della neutralità, che permette di legittimare le azioni politiche. Se la politica di neutralità è flessibile, a dipendenza del contesto in cui la si usa, l’essenza del discorso non si può toccare, perché questa è diventata un elemento distintivo del paese, un elemento che unisce. Noi parliamo continuamente di neutralità, ma ognuno pensa a qualcosa di completamente diverso. È come un sacco: la sua forma è ben definita, ma lo si può riempire come si vuole. E così la politica della neutralità è spesso stata definita ad hoc a seconda degli interessi in gioco e delle esigenze politiche del momento. La neutralità è uno strumento narrativo per legittimare quello che la politica fa ed è funzionale alla prudenza politica di un paese come la Svizzera. Di fatto, la Svizzera ha sempre perseguito una politica estera marcata da una grande prudenza: invece semplicemente di dirlo, si è sempre nascosta dietro all’argomento della neutralità.

Pubblicato il

10.03.2022 11:23
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