Nostalgie d’Unione sovietica

C’è un funerale sui generis e un matrimonio rigorosamente all’aperto, con l’orchestrina e la sposa incinta che fa tanta tenerezza. Ci sono scene di una comicità surreale fra alcool e povertà, con ragazzine prostitute e uomini violenti ma fragili, vestiti di stracci e stranezza. Detto così sembrerebbe un film di Emir Kusturica. Ma “Vodka Lemon” è molto più sottile, onirico ma sofferente dei lavori del regista serbo. Scritto e diretto dall’autore curdo-iracheno Hiner Saleem, 39 anni, “Vodka Lemon”, coprodotto dalla ticinese Amka Films di Tiziana Soudani, ha vinto il concorso “Controcorrente” al Festival di Venezia. Ambientato in un villaggio dell’Armenia postsovietica, “Vodka Lemon” ha per protagonista Hamo, un ex ufficiale dell’Armata rossa che deve campare con 7 dollari al mese di pensione. Andando regolarmente al cimitero sulla tomba della moglie finisce per innamorarsi di una bella vedova. E forse sarà proprio l’amore a far dimenticare ai due le sofferenze di un presente sempre più privo di futuro. L’intervista che segue a Saleem è stata realizzata in occasione della proiezione di “Vodka Lemon” al festival Castellinaria di Bellinzona, che si conclude domani. Il film di Saleem uscirà venerdì prossimo, 28 novembre, a Lugano (Corso) e a Mendrisio. Hiner Saleem, ci racconti brevemente la sua vita di eterno profugo, in fuga dalle persecuzioni del governo iracheno contro il suo popolo. Della mia infanzia, fra le fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, ricordo le fughe dai bombardamenti iracheni. Mio padre in quel periodo era il telegrafista del generale Mollah Mostafa Barzani, capo storico e leggendario della resistenza curda in Iraq, attualmente diretta dal figlio Massud. Avevamo dovuto lasciare la nostra città, Akkre, a 70 chilometri da Mossul, perché era stata bruciata la nostra casa. Vivevamo dove potevamo, sulle rive del fiume Tigri, a volte trovando rifugio anche nelle grotte. Sono fuggito abbastanza giovane dal Kurdistan annesso all’Iraq all’inizio degli anni ’80. Ho vissuto alcuni anni in Italia senza mai poter regolarizzare il mio statuto, quindi da clandestino, perché all’epoca l’Italia riconosceva lo statuto di rifugiato solo ai profughi dei Paesi del blocco comunista ed eccezionalmente a chi fuggiva dal Cile, perché lì anche la Democrazia cristiana era all’opposizione. In Italia vivevo facendo il ritrattista di strada, soprattutto a Firenze, ma ho frequentato pure l’università. Poi mi sono trasferito in Francia, dove mi è stato riconosciuto lo statuto di rifugiato. E com’è nato il desiderio di fare del cinema? Durante le nostre fughe mio padre portava sempre con sé i libri dei classici curdi, stampati clandestinamente. Ci leggeva la poesia classica curda e ci obbligava tutti ad ascoltare. Io non capivo nulla e mi annoiavo. Una sera mio padre apparve con l’ennesimo libro di un classico curdo, ma stavolta illustrato: su una pagina c’erano sempre le poesie, a fronte erano invece riprodotti dei ballissimi quadri con ragazze magnifiche, vestiti splendidi, e poi montagne, animali, boschi, colori… Quel libro per me fu la scoperta della mia vita: prima non avevo mai visto la pittura, per me fu una folgorazione. A quel punto cominciò a piacermi anche la poesia classica curda, ma soprattutto capìi che nella mia vita avrei voluto fare qualcosa che abbinasse la parola all’immagine. Questa sensazione si rafforzò qualche anno dopo quando tornammo ad Akkre e per la prima volta vidi la televisione: immagini in movimento con parole e musica, fu la seconda folgorazione della mia vita. Ero in particolare affascinato dalla propaganda panaraba all’inizio dei programmi televisivi. L’unica cosa che all’epoca non capivo era perché mai la televisione non sapesse parlare in curdo, pensavo che forse era una lingua non adatta alla macchina. Mi riproposi dunque di trovare il modo di far parlare in curdo la televisione… A fare qualche cosa nel cinema ho cominciato in Italia, dopo la guerra del ’91. Da allora questa è per me una necessità. Come mai il suo film “Vodka Lemon” è ambientato in Armenia? In realtà avrei voluto ambientare questa storia in Kurdistan, ma non mi è stato possibile girare a casa mia perché Saddam Hussein all’epoca delle riprese era ancora al potere. Cercando un’alternativa ho pensato subito ai villaggi curdi in Armenia, una regione che conosco molto bene e dove ho diversi amici, e ho quindi adattato la storia alla nuova ambientazione. Perché ha deciso di mettere al centro di “Vodka Lemon” la nostalgia per l’Unione sovietica? “Vodka Lemon” non è un film politico in senso stretto, ma è vero che è ambientato in una regione che fino a 10-15 anni fa faceva parte dell’Unione sovietica. E anche se sono curdo, sono comunque un cittadino di questo mondo, interessato anche ai problemi che non sono necessariamente quelli del popolo curdo. I villaggi curdi di cui parla il film furono tutti costruiti a partire dagli anni ’30 sulle rovine di quelli precedenti grazie alla spinta che veniva dall’Unione Sovietica, grazie alla quale sono arrivate comodità nella vita di tutti i giorni, come l’acque e l’elettricità, che prima erano impensabili. Ad esempio nel film si vedono spesso i tralicci dell’elettricità: non è un caso, sono quelli posati ancora in epoca sovietica. Dal crollo dell’Unione sovietica la situazione in quei villaggi è continuamente e drammaticamente peggiorata. Oggi ancora la gente parla russo e nelle case ha i simboli del comunismo: sono tracce che non si cancelleranno facilmente. Sì, la gente ha nostalgia dell’Urss. È una nostalgia che si spiega soltanto con il maggior livello di benessere materiale rispetto ad oggi? No, c’è un altro fattore decisivo: l’Unione sovietica era buona per le minoranze regionali, perché soffocava ogni sentimento nazionalistico ristretto. In Europa invece il giacobinismo nazionalista ha sempre oppresso le minoranze. Oggi tanto i curdi quanto gli assiri che tutte le altre minoranze della regione rimpiangono l’Unione sovietica, perché all’epoca non avevano problemi. Il film visivamente è dominato dal bianco della neve. Perché? È un’idea che ho avuto fin dall’inizio, è una sorta di ricordo d’infanzia. Inoltre sono un po’ pudico, e la neve mi serve quasi da tenda dietro cui nascondermi: voglio essere discreto, non mi va di disturbare i personaggi che racconto, di impormi nella loro vita, di fare il voyeurista. Il film finisce in primavera, quando il bianco scompare e nell’immagine resta soltanto terra e fango: non lascia spazio all’ottimismo. Ho voluto finire in primavera per alludere alla possibilità di un nuovo inizio, di un riscatto. E questa speranza nel futuro malgrado tutto si evidenzia nella decisione dei protagonisti di non vendere il pianoforte, dopo che già hanno svenduto tutto ciò che avevano in casa per sopravvivere. È vero che quando si scioglie la neve la miseria è ancora più presente e opprimente: ma i due protagonisti sono innamorati, e trovano nell’amore e nell’arte la forza per avere speranza, per guardare avanti. Anche perché non hanno altra scelta. In “Vodka Lemon” succede molto poco, il numero dei personaggi è assai contenuto e i tempi del film sono piuttosto dilatati. L’impressione è che abbia lavorato molto di forbici già scrivendo la sceneggiatura. Sì, ma anche al montaggio. Per me il montaggio è davvero un momento di riscrittura di un film: è lì in particolare che riesco a trovargli il ritmo giusto. In questo mi aiuta la mia capacità di rinunciare al materiale girato, so essere molto selettivo, mi piace che la storia avanzi. Ha avuto difficoltà a trovare in Europa dei produttori interessati alla storia di un villaggio armeno girata da un regista curdo? Non più che se fossi stato francese o italiano o tedesco. Quel che conta per i produttori è la storia e la capacità di raccontarla. Ho quindi dovuto fare un normale lavoro di convincimento, ma non ho trovato prevenzioni particolari nei miei confronti. Il mio mondo è questo, e per il momento non me ne posso inventare un altro. Anche perché ho ancora molte cose da raccontare sui curdi. Il mio prossimo film sarà sui curdi e sull’Iraq, titolo provvisorio “Iraq fornever”. I produttori saranno gli stessi, le riprese sono previste per il 2004. Che futuro vede per i curdi in Iraq? È necessario che un secolo di guerra in Kurdistan finisca, e questo dev’essere un compito prioritario della comunità internazionale. La dirigenza curda propone che l’Iraq diventi uno Stato federale con un’entità curda e una iracheno-araba. Questa è la richiesta curda più moderata che ci si possa immaginare, ed è al contempo la sola salvezza per l’Iraq: se si vuole che i curdi rimangano in Iraq bisogna rispettarli. Spero che 40 anni di saddamismo, di idee panarabiste, nazionaliste e scioviniste spingano finalmente a trovare una soluzione che bandisca la violenza e il razzismo e rispetti anche i diritti dei curdi. Ma oggi ricordo anche una frase che mio nonno era solito ripetere: «il nostro passato è triste, il nostro presente è catastrofi-co», e, allargando le braccia e sorridendo aggiungeva «ma per fortuna non abbiamo un futuro».

Pubblicato il

21.11.2003 04:30
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