Ogni domenica un campionato europeo

Non si tratta solo di tirare calci a un pallone, c’è molto di più nella storia delle squadre di calcio composte da immigrati che militano nelle leghe minori del canton Ticino. Sono storie di stranieri che si incontrano sul campo verde di un paese in cui non sono nati ma nel quale vivono e lavorano tutti i giorni. Così la domenica diventa un pretesto per ritrovarsi e mentre nel rettangolo di gioco si confrontano gli uomini a seguirli con tifo degno da campionati europei ci sono le famiglie intere. «Arbitro! Non sarà mica fallo quello lì», si sente a bordo campo. Comunità di portoghesi, macedoni e italiani giocano tutto l’anno nei campionati minori del calcio cantonale. Area ha incontrato alcune di queste squadre. Emblematica l’evoluzione della storica Us Azzurri di Biasca – fondata nel 1969 da immigrati italiani che lavoravano alla Monteforno – che da baluardo dell’“italianità” in Svizzera è ora diventata una squadra in cui giocano i giovani di tutto il Sopraceneri, biaschesi compresi (un’evoluzione simile a quella della Fc Juventus di Zurigo, vedi articolo a lato). Non più solo italiani quindi ma anche ticinesi che si riconoscono nel blasone degli Azzurri. Segno dei tempi che cambiano e di storie di genitori che volevano, anche attraverso il calcio, difendere un’identità che avevano paura di perdere. Timori allontanati invece dai figli cresciuti in Ticino e che vogliono unicamente giocare al calcio con i propri amici e «vivere la vita qui nel modo più completo possibile». Un testimone che nel tempo è idealmente passato dalla comunità italiana a quella portoghese e macedone, i “nuovi immigrati” del calcio ticinese. «Prima di parlare mangiamo, guarda che bella questa costina, e quel pesce hai visto come è grigliato bene?», così ci accoglie José Cardoso presidente della As Portoghesi Ticino, fresatore di mestiere e improvvisato “grigliatore”. La sua squadra ha organizzato un torneo di calcio nel fine settimana a Pollegio. «Eh sì! È vero piove un po’ ma qui si gioca lo stesso, oggi ci sono le semifinali e alle 6 si lotta per il primo posto, non possiamo mica fermarci per due gocce d’acqua», dice José sempre alle prese con la griglia. La squadra è nata nel 1991 a seguito di un’iniziativa di suoi connazionali che avevano un Circolo ricreativo a Pollegio, chiuso poco tempo fa per problemi finanziari. La formazione portoghese milita in 5a divisione e quest’anno ha terminato il campionato a metà classifica. «Se siamo contenti dei risultati? Allora direi che dal punto di vista del calcio mica tanto ma per come si comporta la squadra sono contento, sono dei bravi ragazzi», dice il presidente. Quasi tutti i giocatori della squadra sono giovani portoghesi, di prima o al massimo seconda generazione. «La maggior parte di noi lavora nel Sopraceneri – dice uno dei calciatori – a volte è difficile essere sempre presenti agli allenamenti e alle partite, sai con i turni al ristorante non è facile essere costanti e non si può mica dire che non lavori la domenica perché hai una partita di calcio». Interviene José che annuncia soddisfatto che la carne è arrostita al punto giusto e che è ora di spostarsi sotto al tendone. A tavola c’è anche Fernando, l’arcigno allenatore della squadra che però nel torneo fa da arbitro. Le squadre sono infatti miste, giocano a nome di bar o ristoranti e ci sono calciatori di diverse squadre del Sopraceneri. «Noi portoghesi giochiamo un calcio diverso. Siamo più tecnici ma in campo non sappiamo stare, tatticamente abbiamo molto da imparare dalle altre squadre. Lo dico sempre ai miei ragazzi, non bastano solo le belle giocate ma ci vuole anche organizzazione nel gioco. Ci piace troppo il pallone in mezzo ai piedi», dice ad alta voce l’allenatore facendosi sentire dai giocatori a tavola che si concentrano ancor di più sulle costine. A pranzo ci sono anche mogli e figlie che commentano le partite, rincuorano e allo stesso tempo deridono chi ha commesso errori clamorosi o fatto cadute spettacolari. «Mio zio è un po’ vecchio ma vuole ancora giocare a pallone. Lo sai che io ho solo tre cognomi?», dice convinta una bambina piccola. José sorride e confessa che sua moglie non è venuta oggi a seguire le partite, «mi ha detto che fra europei e questo torneo di calcio non ne può più di sentir parlare di pallone. Eppoi stasera giocano Portogallo contro Spagna! Un’altra partita che si dovrà sorbire…». Ma poi aggiunge subito più serio: «Sai noi giochiamo a calcio anche per incontrarci, per stare un po’ insieme, ci si aiuta fra di noi. Non si parla solo di calcio ma anche dei problemi della vita. Del mestiere che facciamo, del nostro Paese, di quello che abbiamo scoperto di nuovo qui in Svizzera. Poi è anche un modo per trovare un lavoro. Uno sa che c’è un posto che si libera e lo dice all’amico». Sì, perché il calcio non si ferma al rettangolo di gioco. È una forma di aggregazione non solo fra giocatori di una stessa squadra ma è anche un mezzo per conoscere persone degli altri club del campionato e per girare il territorio ticinese. L’integrazione, il senso di appartenenza a una nuova terra non passa solo dalla lingua o dalla formazione ma spesso anche dallo sport. Uno sport che non conosce barriere il calcio, osannato in quasi tutte le nazioni europee. Insomma un pallone che unisce. «L’anno prossimo vogliamo fare una squadra con più giovani – dice José –, siamo stati per un po’ di tempo in quarta lega e l’obiettivo dell’anno venturo è di tornarci. Anche se non sarà facile trovare giovani portoghesi disposti a giocare con noi». Non che non ce ne siano, solo che, come ci ha detto Andre – lusitano che gioca negli Azzurri di Biasca (vedi articolo a sinistra) – «Vogliamo giocare con i ragazzi con cui siamo cresciuti, con i nostri amici e non per forza solo con l’As Portoghesi». Al caffè José dice quasi sovrappensiero: «In fondo è giusto che i nostri ragazzi giochino con chi vogliono, è normale. Non possiamo mica obbligarli a restare sempre con noi. Per noi adulti è diverso, noi siamo arrivati qui dal Portogallo, non parliamo bene la lingua come loro. I nostri figli sono cresciuti qui, a scuola si confrontano con gli altri bambini e non vogliono sentirsi diversi. Lavoreranno qui, forse si sposeranno con ragazze ticinesi e avranno una famiglia. È difficile per noi genitori ma dobbiamo accettare il fatto che il loro campo da gioco è qui». Ma le malinconie del presidente durano un attimo solo, i suoi pensieri vanno subito al futuro calcistico della sua squadra. Vorrebbe aprire una sede a Castione per il club, una specie di campo base dove trovarsi prima e dopo delle partite per stare insieme e bere una bibita, parlare dello schema da utilizzare e fare le considerazioni del dopo partita. «Lavate di capo comprese», precisa José. Ma i sogni si scontrano con i problemi finanziari, ci vogliono soldi per aprire un bar e con lo stipendio da fresatore che lavora da 25 anni in Svizzera non ci arriva, «ma forse ce la facciamo se ci mettiamo tutti insieme». Alle 14:30, il fischio iniziale dà il via al confronto, iniziano le “ostilità”, se così le si può chiamare. Al bordo del campo ci sono i giocatori delle altre squadre e le famiglie nella suggestiva cornice delle montagne da cui sgorga la cascata Santa Petronilla. Ma nel calcio si sa, non tardano ad arrivare le critiche all’arbitro, ma Fernando si ribella subito dicendo che lui in realtà fa l’allenatore. Alla prima occasione di gioco fermo un giovane portoghese si avvicina per un veloce bacio alla sua ragazza che indossa una felpa azzurra con la scritta “Italia”, l’incontro è accompagnato da un boato di risate e da commenti divertiti. «Pronostici per Portogallo-Spagna di stasera? Vedrai che vinceremo!». Azzurri sì, ma di Biasca Fabrizio, Ivan e Mauro sono tre amici. I primi due italiani cresciuti a Biasca, Mauro è svizzero. Sono loro, insieme al presidente, Massimo Scolari, a tenere in piedi l’organizzazione della squadra di calcio Us Azzurri. Mauro Barone-Donati, allenatore del settore giovanile, ci spiega che il club è stato fondato nel 1969 «anche se gli immigrati italiani che lavoravano all’acciaieria Monteforno parlavano di creare una propria squadra di calcio già nel ’68 in occasione di un torneo dei bar organizzato dal ristorante Sport, prima sede degli Azzurri». Da allora è passato parecchio tempo e la Monteforno ha chiuso i battenti. Alcuni italiani sono rientrati in patria mentre altri si sono stabiliti nella regione. «I vecchi dirigenti sono sempre attaccati alla loro squadra, ci vengono a trovare, ci danno consigli ma ci criticano anche – dice il vice presidente Fabrizio Maddalon –, hanno paura di veder morire gli Azzurri. Ma una volta a vederci giocare e a tifare per noi venivano anche mille spettatori. Basta pensare agli storici derby col Malvaglia. Adesso non è più così, dagli anni ’90 le cose sono cambiate. Ai tempi se organizzavi una maccheronata si riempivano i tendoni e la società poteva tirare su un po’ di soldi. Se la facciamo ora è tutt’altra cosa, viene molta meno gente anche se siamo arrivati fino alla Seconda divisione!». «Segno che le cose sono cambiate, forse anche per una squadra che fortunatamente non è più “ghettizzata”: ormai anche gli Azzurri sono la squadra di Biasca», precisa Ivan Basso, responsabile del materiale. Negli Azzurri infatti non giocano più solo gli immigrati italiani ma anche i giovani della regione. I tre amici rammentano episodi duri, di insulti ricevuti e della forte rivalità fra svizzeri e italiani che c’era una volta. «Non che sia scomparsa del tutto – racconta Mauro –, mi ricordo che durante una partita in cui giocavo da piccolo mi chiamavano “terrone”, proprio a me che sono svizzero. Io sono cresciuto con loro, ormai siamo “soci”». Anche Fabrizio racconta di scintille mai del tutto sopite: «Pensa che solo due mesi fa in Val Maggia in uno spogliatoio a noi destinato pochi giorni prima delle partite della Coppa Ticino è comparsa sul muro una croce elvetica di benvenuto, cose da matti che mi fanno solo sorridere!». Anche la sorte del Cri Bellinzona è cambiata, ci ha spiegato il presidente Alberto Santandrea: «A differenza degli Azzurri che erano lavoratori della Monteforno di Bodio il Cri era composto all’inizio perlopiù da lavoratori del settore edile. Con gli anni anche noi come loro ci siamo adeguati ai tempi, ora abbiamo una squadra che rappresenta tutto il Ticino e non solo l’emigrazione italiana che forse non c’è più o almeno è diversa da quella di una volta». Fabrizio, Ivan e Mauro fanno notare che fra le fila degli Azzurri hanno militato anche personaggi noti, «ad esempio Donatello Poggi che è da poco diventato municipale di Biasca è stato uno dei primi svizzeri ad aver giocato nella nostra squadra», dice Mauro. Fabrizio fa subito notare che «anche Paolo Meneguzzi (che sarà in concerto domenica a Bellinzona, ndr), è stato centravanti degli Azzurri fino a 3 anni fa». Ma allora ha ancora senso che la squadra si chiami “Azzurri”? Per i tre amici la risposta è scontata, «le radici non si dimenticano, la presenza italiana resta comunque ancora forte». Sono portoghese e gioco con gli amici Andre è nato a Biasca, vi ha frequentato le scuole e ora lavora. «Di mestiere faccio il costruttore di veicoli elettrici», ci dice con modestia. La sua storia assomiglia a quella di molti giovani figli di immigrati stranieri. Padri emigrati per necessità che cercano lontani da casa di dare un futuro alla propria famiglia. Alla partenza la speranza di molti era quella di poter rientrare un giorno in patria, magari costruirsi una casa e vedere figli e nipoti vivere con un agio che loro non avevano avuto. Sogni e speranze che non si scontrano sempre e solo con una fortuna che non si è riusciti ad avere ma anche con l’inevitabile attaccamento a un territorio divenuto un po’ anche loro ma soprattutto dei figli. «Sono nato e cresciuto qui in zona e non voglio ghettizzarmi», dice Andre cercando di farci capire perché non ha accettato di giocare nella As Portoghesi Ticino di Pollegio. La sua squadra è la Us Azzurri, un tempo composta unicamente da immigrati italiani ma che con gli anni è diventata sempre più “squadra di Biasca” (vedi articolo centrale). «C’è un’altra cosa da dire, anche a livello agonistico giocare per gli azzurri dà più soddisfazioni. Con loro sono nel campionato di 2a lega mentre con la As Portoghesi giocherei in 5a lega. Una bella differenza – dice il calciatore e aggiunge – Poi non capisco proprio che bisogno c’è di stare sempre tutti insieme. Ormai la mia vita è qui e voglio viverla nel modo più completo possibile». Una natura inevitabile delle cose che però molti padri fanno fatica ad accettare. “È perché qui avete tutto che non sapete più apprezzare ciò che in realtà siete”, dicono a volte con malinconia e rabbia ai figli. Loro, i genitori, stanno in bilico fra due paesi e due culture diverse e alcuni soffrono nel vedere i figli attaccati a una terra che non ha lo stesso odore della loro infanzia, sapori e odori che spesso cercano in ogni pietanza e angolo del nuovo paese. “Assomiglia un po’ al piatto che fanno dalle mie parti”, oppure: “guarda quella pianta lì, da noi il frutto cresce molto più bello”. Ad acuire le tristezze degli adulti ci si mette l’irruenza giovanile, sempre pronta a marcare il punto ogni volta che mamma e papà si lasciano andare a facili confronti. Uno dei calciatori portoghesi racconta della furia del padre quando da piccolo gli aveva detto di preferire il risotto alla milanese a tutti gli altri cibi, quelli lusitani compresi. Piccoli drammi che da adulti fanno sorridere. Sono racconti che si ritrovano spesso nelle seconde generazioni, non fa differenza la nazionalità. E la storia – presentata nell’articolo a lato – delle squadre di calcio minore composte da immigrati riflette a suo modo questa realtà. Quella di un mondo fatta di immigrati che anche grazie al pallone si trovano e si fanno coraggio per vivere una vita nuova, diversa ma che poi col tempo non sgomenta più e diventa come un vecchio abito oramai comodo da indossare e dal quale non ci si vorrebbe più separare. Si diventa immancabilmente sempre meno immigrati. Ma le radici restano dentro, come un riflesso involontario del corpo. Nei momenti più salienti del torneo, quando c’è da incitare o riprendere i compagni di gioco, Andre grida in “vero portoghese”. "Noi veniamo dalla Macedonia" «Non sono mica contento dei risultati di quest’anno! Giochiamo in quinta lega e in più siamo arrivati ultimi in classifica. Un po’ deludente, una stagione davvero troppo brutta», così commenta il campionato da poco conclusosi Penevski Lazar, presidente dell’As Belasica di Locarno. La squadra è composta da giocatori macedoni, «ci conosciamo quasi tutti perché veniamo da tre o quattro paesi vicini in Macedonia. Ma ci sono anche 2 giocatori portoghesi nella nostra squadra». Il presidente parla anche dell’altra squadra di macedoni in Ticino, la Fc Makedonija che quest’anno si è classificata al primo posto del gruppo 3 della 4a divisione. «Sì, vengono anche le nostre famiglie a vedere le partite, più o meno abbiamo 50-60 tifosi per match. La Makedonija è seguita invece da quasi 200 persone – dice Penevski e poi aggiunge – Anche noi ci troviamo per stare in compagnia, per bere qualcosa insieme e magari fare una grigliata all’aperto. Ma l’anno prossimo andremo meglio vedrete, stiamo cercando dei giovani forti e li troveremo», aggiunge infine il presidente Lazar.

Pubblicato il

25.06.2004 02:30
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