Ospedali, capire per guarire

A Moreno Doninelli, capo infermiere e responsabile del progetto pilota "ospedale interculturale", piace ricordare che all'entrata del Beata Vergine di Mendrisio c'è una scultura di Selim Abdullah. Si tratta di corpi umani, "figure stipanti", che vogliono portare con sé l'idea di comunità. I corpi bronzei formano una cupola che ricorda un elemento architettonico tipico dell'Islam. E proprio l'Islam è stato ed è al centro di discussioni riportate ampiamente dalla stampa locale come "il caso del burka"(si veda anche l'articolo sotto). "Un falso problema", ci ha detto il personale della struttura sanitaria stupito dal tanto rumore. Anche perché a Mendrisio dall'anno scorso ha preso il via un progetto pilota per "l'interculturalità" negli ospedali che fa parte della strategia della Confederazione per migliorare la salute dei migranti. Una salute che diversi studi hanno dimostrato più cagionevole di quella degli indigeni. E uno dei motivi principali è la difficoltà di comunicazione fra pazienti e personale curante.

Moreno Doninelli quali sono i problemi della diversità culturale che dovete affrontare nella struttura ospedaliera?
Il problema principale è sicuramente quello della comunicazione: ci sono casi in cui è difficile capire e farsi capire. Le cosiddette "diversità" culturali o religiose sorgono solitamente in un secondo tempo. Arriva un paziente al pronto soccorso, non conosce l'italiano o una seconda lingua comune, ci troviamo nella condizione di dover capire il suo problema di salute senza poter interagire. Se ha una ferita ci fa vedere dove si trova, ma se presenta un'altra sintomatologia e non è in grado di spiegarci cosa riscontra, da quanto tempo, ecc. non possiamo intervenire nel migliore dei modi. In queste condizioni ci troviamo evidentemente in difficoltà. In generale non è facile, per esempio, annunciare ad un paziente che ha una malattia con decorso cronico o invalidante o che magari deve seguire un certo tipo di terapia. Quando poi è presente la barriera linguistica tutto diventa ancora più complicato. È questa la prima difficoltà che deve superare il personale infermieristico, medico e amministrativo al cospetto di un'utente di origine straniera con il quale non è possibile interagire verbalmente. Provate voi ad immaginarvi in un ospedale dell'estremo oriente senza poter spiegare con il medico del luogo il vostro problema di salute!
Quali sono i reparti maggiormente toccati?
Le aree più sensibili sono le cosiddette "porte d'entrata". Il pronto soccorso, l'area materno-pediatrica e l'amministrazione.
È un problema che è cresciuto negli anni?
Direi che c'è sempre stato. Ricordo in particolare quando arrivavano i rifugiati dalla ex Jugoslavia che fuggivano dalla guerra. Non era facile per le strutture ospedaliere, come non era facile per i pazienti. Ma senza andare lontano e pensare ai migranti venuti da chissà dove basta ricordare noi ticinesi ai tempi che dovevamo recarci a Zurigo perché gli ospedali ticinesi non erano quelli di oggi. Anche in questo caso, per chi non sapeva "schwytzerdütch", sorgevano problemi di comunicazione, attenuati dalla presenza sporadica di qualche medico o infermiere che conosceva l'italiano.
Avete appena terminato la penultima fase del progetto pilota "Migrant Friendly Hospital". Quali conclusioni ne avete tratto?
Credo che si tratta di un buon progetto che fornisce risposte ai bisogni dei curanti e dei pazienti. La nostra legge sanitaria ci richiede di prestare cure mediche a tutti indipendentemente dal ceto sociale e dalla nazionalità, ma anche di farlo in termini qualitativi. Ma mi lasci dire che più che "Migrant Friendly Hospital" (ospedale amichevole per migranti come denominato da H+, l'associazione mantello degli ospedali svizzeri, ndr) a Mendrisio preferiamo chiamarlo "progetto ospedale interculturale". Questo perché non riguarda solo i migranti. Presso gli ospedali del Ticino lavorano medici e collaboratori originari di paesi anche molto lontani. Facciamo l'esempio di un signore che ha sempre vissuto in una valle e parla solo dialetto; avrà anche lui problemi di reciproca comprensione, perché magari il personale non lo capisce perfettamente. Chiaro, in questa situazione è più facile trovare qualcuno che può mediare per lui rispetto ad un paziente straniero. In definitiva il progetto mira ad affrontare efficacemente la diversità insita in ognuno di noi.
Cosa è stato fatto finora?
Abbiamo innanzitutto fatto ricorso alle risorse interne. Dopo una prima fase di valutazione e di raccolta delle informazioni presso altri ospedali, abbiamo deciso di formare alcuni nostri collaboratori di origine straniera per poter intervenire ad hoc come traduttori in situazioni d'urgenza. Abbiamo inoltre messo a disposizione del personale alcuni strumenti: un dizionario medico multilinguistico d'emergenza, un piccolo depliant illustrativo per la comunicazione attraverso pittogrammi e creato un sito in intranet con la documentazione tradotta nelle varie lingue.
E quando il paziente non parla una delle lingue che fa parte delle conoscenze interne all'ospedale?
In questi casi il progetto prevede di ricorrere ai traduttori professionisti. Persone di origine straniera che hanno seguito appositi corsi tenuti in Ticino da strutture specializzate. I nostri contatti ci permettono di far intervenire un traduttore professionista nello spazio di poche ore. Questa settimana abbiamo dovuto assistere una signora di origine rumena in gravidanza. In questo caso abbiamo potuto attivare, tramite contatto telefonico a distanza, una collega anch'essa rumena presente in un'altra sede e garantire una prestazione di qualità.
Vale la pena di avere un progetto del genere? In fondo sono costi in più…
Certo che ne vale la pena. Se non siamo in grado di stabilire rapidamente una corretta diagnosi e definire la cura più appropriata, potrebbe costare molto, ma molto più caro sia al paziente sia all'ospedale. Ci sono studi che dimostrano che la popolazione straniera risulta più svantaggiata in termini di accesso al sistema sanitario e il problema della salute dei migranti è riconosciuto anche a livello internazionale. Oltre agli aspetti etici e deontologici dai quali non è possibile prescindere, il rapporto costi/benefici del progetto appaiono già ora più che evidenti.


Burka, la palla al comitato etico

Ha fatto scalpore e fa ancora parlare il caso della paziente di religione musulmana ricoverata a fine aprile nel reparto di ginecologia dell'ospedale Beata Vergine di Mendrisio (Obv) – si veda anche l'editoriale in prima pagina. I coniugi di origine marocchina avevano fatto subito presente all'ospedale le proprie abitudini religiose e culturali; come ad esempio il fatto che l'unico uomo che può vedere la giovane non coperta è il marito, oppure che la dieta è tassativamente priva di carne di maiale. La direzione dell'ospedale aveva chiesto ad una signora ticinese se era disposta a condividere la camera con la giovane paziente musulmana – in quanto non erano disponibili altre soluzioni – spiegandole che la stessa avrebbe dovuto coprirsi viso e mani ogni volta che nella camera entravano uomini. La paziente ticinese aveva accettato di buon grado sottolineando che capiva in quanto anche sua cognata è di origini islamiche. La giovane incinta veniva così informata per tempo ogni volta che un uomo entrava in camera di modo che potesse coprirsi e l'ospedale aveva messo a disposizione oltre che la normale tendina di separazione anche un paravento. A questo punto, la signora ticinese decideva di propria iniziativa di incontrare il marito fuori dalla camera semplificando così il tutto.
Secondo gli infermieri presenti nei tre giorni di degenza comune non si sono create difficoltà fra le due pazienti, anzi.
Il 10 maggio la Rsi trasmette un servizio in cui il marito della signora ticinese rilascia un'intervista in cui pone l'interrogativo riguardante l'opportunità di assecondare abitudini religiose che possono creare disagio per la popolazione indigena.
La notizia è stata largamente ripresa dai media locali e Lorenzo Quadri, parlamentare leghista, ha puntualmente presentato un'interrogazione all'indirizzo del Consiglio di Stato in cui chiede al governo «se non ritiene più adeguato un piccolo sforzo di integrazione da parte di una coppia musulmana piuttosto che noi ticinesi adeguarsi agli altrui usi e costumi».
Solo a questo punto, come ci ha confermato lo stesso personale dell'Obv, si è saputo che una degenza pacifica era diventata un "caso mediatico". Un'infermiera ci ha detto: «ho saputo che c'era questa paziente da noi solo attraverso i giornali. I colleghi mi hanno riferito che non c'è stato alcun problema. Solo a volte il marito sbuffava contro la moglie perche non condivideva la decisione che aveva preso di uscire dalla stanza».
Ora, dopo un batti e ribatti fra il primario dell'Obv Brenno Balestra e Lorenzo Quadri la direzione dell'Ospedale regionale interpella il Comec, la Commissione di etica clinica dell'Ente ospedaliero cantonale. Tre sono le domande indirizzate all'ente:  innanzitutto l'Obv chiede quale comportamento dovrebbe assumere il personale in situazioni simili. Non tanto per il principio del trattamento uguale per tutti, ma per «un trattamento da eguali nel rispetto delle differenze».
La seconda domanda: «nella gestione della diversità, soprattutto di quelle con forte connotazione culturale e/o religiosa, quali sono i limiti in termini di esigenze individuali specifiche gestibili dall'organizzazione ospedaliera?».
L'ultima questione riguarda l'opportunità di trovare soluzioni specifiche (come la camera singola) oppure l'impegno da parte del personale nell'attuare «sforzi di integrazione e pacifica convivenza tra pazienti di differenti culture».   
  

Pubblicato il

15.06.2007 02:30
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