Perché piangi, Rosalia?

È nata a Bagheria ma nei suoi occhi non c’è il mare, ha vissuto quasi sempre fra mura di casa o di fabbrica. Suo padre era cestaio, lo dice con orgoglio, fabbricava ceste per le arance, la materia prima erano le canne che crescono nei terreni umidi lungo la costa. Ultima di otto figli, ha cominciato a lavorare fin da piccola spazzolando arance, “le mani mi facevano male”. Perché quando si colgono dagli alberi le arance non sono belle come appaiono sui banchi del mercato, per la maggior parte sono ricoperte di macchie scure. Siccome la famiglia era numerosa, a sette anni viene affidata a una zia senza figli per essere adottata. Dopo qualche mese arriva il padre per formalizzare l’atto, lei non vorrebbe perché ha nostalgia della sua mamma vera, ma deve obbedire. Da quel momento si diradano le visite dei genitori. La zia la tratta abbastanza bene, il padre adottivo è “istruito”, ma siccome la bambina ha difficoltà nell’imparare a leggere e scrivere, viene tolta dalla scuola e avviata al lavoro di cucito. Rimarrà estranea per tutta la vita al mondo dei libri e dei giornali, per tutta la vita escogiterà modi ingegnosi perché nessuno si accorga che sa a malapena tracciare la firma. Rosalia, raccontaci: com’era la festa della Santa a Palermo? Non l’ho mai vista. Solo una volta lo zio mi ha portata al santuario sul monte, per un sentiero lungo e in salita, lui aveva il fucile a tracolla, non si sa mai.


A vent’anni lascia la Sicilia e arriva in Svizzera dove si era già stabilito un fratello maggiore, operaio in una ditta oltre Gottardo. Si ferma in Ticino ed è assunta in una fabbrica di vestiti come sarta da uomo, a cucire pantaloni. Da questa professione le deriva un certo gusto nel vestire, una certa finezza nell’accostare i colori. “Le altre ragazze avevano tutte degli appuntamenti, a me invece mai nessuno ha dato un appuntamento”. Sempre alla macchina da cucire passano gli anni, arriva il momento di andare in pensione. Per risparmiare divide l’appartamento con un altro pensionato, ciascuno cucina per sé, “lui metteva troppo pepe su tutto”. È colpita da un tumore alla mascella, deve sottoporsi a un intervento chirurgico che le lascia una cicatrice sulla guancia. Trascorre la convalescenza, un mese, in una casa di cura. Lì si dà da fare, aiuta un po’ tutti, le vogliono bene, le propongono di rimanere. “No, non posso lasciare solo l’uomo che vive con me, non voglio mancare di parola come quel furfante di Garibaldi”: è rimasta felicemente impermeabile alla retorica risorgimentale.


Poi il suo compagno di appartamento viene a mancare, lei rimane sola come del resto durante tutta la sua vita. Qualcuno la aiuta nelle pratiche amministrative, è felice quando la si accompagna a comprare qualcosa o a prendere un caffè, perché da sola ha difficoltà a camminare, è insicura sulle gambe. Fino a quando comincia a udire voci di notte, è la sua immaginazione, si agita, fa rumore. I vicini si lamentano col padrone di casa. L’aiuto domiciliare le programma una visita specialistica e il responso è chiaro: non è più in grado di vivere da sola.


A un tavolino sotto i portici di fronte al lago, dice che le piacerebbe un gelato. Ma con la stagione ancora fredda il gelato non è disponibile. Allora un caffè. Ringrazia tante volte. Poi l’arrivo alla casa per anziani, l’accoglienza è bella, il personale gentile. Devo rimanere qui? Sì. Non potrò tornare a casa? No, Rosalia. Forse pensa a quel giorno da bambina quando dovette lasciare per sempre la sua mamma. Le scende qualche lacrima. Nei suoi occhi c’è il mare.

Pubblicato il

17.04.2019 18:12
Giuseppe Dunghi
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