Poi parlano di libertà di stampa

Il 3 maggio è stata la giornata mondiale della libertà di stampa. Le giornate dedicate sono un rituale dei giorni nostri. Quasi un compleanno, una scusa per parlare di un tema. Un espediente per riempire le pagine dei giornali con buoni propositi da dimenticare il giorno successivo. Quest’anno il rituale è stato particolarmente patetico. Come si fa a parlare di libertà di stampa mentre Julian Assange si avvicina a passi da gigante all’estradizione negli Stati Uniti? Sono tempi bui e di grande decadenza.

 

Si pontifica sulla repressione della libertà di stampa e di espressione nei paesi brutti e cattivi. Guarda la Cina, guarda la Russia e l’Iran. Tuttavia è proprio nel continente Europa, alla periferia di Londra, che l’australiano che ha vinto decine di premi giornalistici è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Assange ha perso da oltre dieci anni la libertà personale. Da tre anni vive blindato in una cella destinata a individui ritenuti pericolosi per la società. Imbottito di farmaci, tormentato da problemi di salute fisica e mentale. Perseguitato nel quadro di un processo kafkiano in cui non si trova traccia di ragione, né di buon senso.

 

Il sistema giudiziario britannico ha portato all’estremo il processo di deumanizzazione di una persona che una volta era celebrata come eroe dell’interesse pubblico. Sono abbastanza vecchia per ricordare l’epoca in cui copertine prestigiose venivano dedicate alle imprese di Wikileaks. I giornali a grande tiratura facevano a gomitate per diventarne partner per pubblicazioni storiche. Le torture ad Abu Ghraib. L’omicidio di due giornalisti Reuters. Lo spionaggio a tutto campo, governi amici compresi, portato avanti dagli Stati Uniti. Un elenco infinito e documentato di violazioni di ogni diritto fondamentale. Guerre inventate e manipolazioni di massa.

 

Nel giro di pochi anni, gli stessi media hanno praticato il voltafaccia e si sono impegnati a distruggere la reputazione di Assange. Maltratta il gatto, non si lava, è un egocentrico. Anzi no, è una spia russa. Un processo di lenta distruzione di una personalità pubblica, che è riuscito per anni a nascondere un fatto semplice: chi osa parlare, va imbavagliato. Fatto sparire dalla scena pubblica, con ogni mezzo necessario. Dopo un processo farsa, siamo arrivati agli sgoccioli. Il governo britannico ha l’ultima parola per autorizzare l’estradizione negli Stati Uniti, dove Assange sarebbe processato per violazione della legge sullo spionaggio.

 

La pena? 175 anni di carcere. Il Dipartimento di Stato americano ha spiegato a più riprese, con un’arroganza che lascia basiti, che Assange sarebbe in sostanza seppellito vivo. Nessuna possibilità di ricorso o di liberazione prima della tomba. Londra ha attivamente partecipato alla lapidazione. Sono anni, infatti, che non ci è consentito vedere una fotografia di Julian Assange. Non è lecito vederlo, perché troppi si renderebbero conto che nella presunta civile Europa si pratica la tortura, e si pratica sui giornalisti.

 

Tre anni fa ho lanciato insieme a colleghi d’inchiesta di vari paesi l’iniziativa Giornalisti alzano la voce per Julian Assange. All’inizio fu complicato raccogliere adesioni. Ebbi anche faticosi e inutili incontri di persona con organizzazioni che si occupano di libertà della stampa e diritti umani. Gentili, all’ascolto, e nulla di fatto. Ora il vento sembrerebbe aver cambiato direzione. Tutte le organizzazioni stanno alzando la voce perché Assange non sia estradato. L’esito di questo caso sarà l’ennesima cartina di tornasole dello stato di salute delle nostre democrazie.

Pubblicato il

05.05.2022 12:38
Serena Tinari
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