Ticino

La povertà in Ticino è una piaga in forte crescita negli ultimi anni. Ad esserne toccato, anche chi ha un lavoro. Il salario minimo dovrebbe essere uno strumento di lotta alla povertà. Con l’importo stabilito dalla Commissione della gestione del Gran Consiglio, si continuerà a lavorare ricorrendo ad aiuti di Stato per sopravvivere. L’imprenditoria sussidiata dal pubblico applaude.

 

Il tasso di povertà in Ticino nel 2016 era del 16,5% contro il 7,5% nazionale, mentre l’indice di povertà lavorativa nel Cantone è oltre il doppio e addirittura oltre il triplo di altre regioni del Paese. Il Ticino è l’unica grande regione in Svizzera in cui alcuni salari mediani sono calati negli ultimi 12 anni. In alcuni casi, la riduzione supera i mille franchi mensili. Inoltre, dal 2009 al 2016, le persone in assistenza sono aumentate del 62%, di cui la quota che lavorava è cresciuta del 115%. Nel 2016, più di un quarto delle persone in assistenza, lavorava.


L’impietosa radiografia della povertà nel Cantone non esce da uno studio sindacale, ma dal Rapporto della Commissione della gestione sul salario minimo cantonale. La diagnosi è chiara: il malato è grave, urgono dei provvedimenti. Stando a una sentenza del Tribunale federale (Tf), i Cantoni possono combattere la povertà introducendo un salario minimo. Sempre per il Tf, sei povero se hai diritto alle prestazioni complementari dell’Avs. In Ticino, il salario minimo corrisponderebbe a oltre 21 franchi. Questo vorrebbe la logica, ma i politici ticinesi seguono altri criteri.
Dopo un paio d’anni di discussioni, tatticismi e rinvii post-elettorali, dal cilindro della Gestione è uscito un 19 franchi che potrebbe crescere fino a 20,25 tra cinque anni, se tutto filasse liscio. La proposta della Gestione prevede infatti d’incaricare il governo di realizzare uno studio sull’impatto del salario minimo, prima dell’ultimo scatto. Tra cinque anni, ma non è detto, potremmo avere un salario minimo di un franco inferiore alla soglia di povertà di oggi. Se un franco può apparire poca cosa, sappiate che lo scarto annuale ammonta a 7’200 franchi, forse ridotti a 5’400 tra cinque anni. “So’ soldi, ragioniè”, per chi è costretto a contarli per arrivare a fine mese.


La decisione della gestione non è forse quanto si aspettava la maggioranza dei ticinesi quando votò sì all’iniziativa dei Verdi nel 2015, ma questa pare sia la strada imboccata da buona parte dei partiti. La proposta della Gestione è infatti frutto di un compromesso di larghe intese, Lega-Ppd-Ps e Verdi. I liberali, da sempre ostili al salario minimo che «imbavaglia il libero mercato», avrebbero preferito temporeggiare ancora e dunque non l’hanno sottoscritta. Ad opporsi, restano Mps e comunisti. Si vedrà se il compromesso partorito in Gestione supererà indenne il voto in Gran Consiglio il prossimo lunedì.


Un’ultima domanda arrovella la testa di molti. Perché Partito Socialista e Verdi (promotori dell’iniziativa vincente sul salario minimo), abbiano benedetto un importo che servirà a contrastare la povertà di chi lavora quanto somministrare un Dafalgan a un malato grave? Dalle loro risposte fornite ai media, il pensiero si può riassumere nella politica del “meno peggio”, a volte declinata nel “meglio di niente” o “decisione pragmatica”. Se siano stati eletti per attuare la politica del “meno peggio” (dopo lo slogan delle nazionali “ora si cambia”), lo lasciamo decidere ai loro elettori.
Di certo, i partiti molto sensibili alle opinioni del padronato (Lega, Ppd e Plr), avevano i numeri sufficienti per imporre un importo indegno, senza l’aiuto dei Verdi o socialisti.


Anche la lunga melina per evitarne l’introduzione durata anni, aveva ormai i giorni contati. Si sarebbe comunque arrivati a un salario minimo indegno, senza l’accordo di socialisti e ambientalisti. Ora invece, il risultato ottenuto con la benedizione di Ps e Verdi, rispecchia appieno la volontà padronale, essendo i loro auspici sul salario minimo perfettamente rispettati. «Qualora Governo e Parlamento optassero per la soluzione del salario minimo unico, dovrebbero trovare una soluzione equilibrata fra i 3.000 franchi mensili che il Consiglio di Stato stesso fissa in diversi contratti normali di lavoro e i 3.500 franchi mensili» auspicò dalle colonne del Corriere del Ticino nell’estate del 2017 Stefano Modenini, direttore di Aiti. Probabilmente, nemmeno il rappresentante padronale si aspettava di veder realizzati i suoi auspici col beneplacito di socialisti e verdi. E qualora il padronato fosse insoddisfatto, resta sempre la via di fuga dall’obbligo del salario minimo con l’adozione di contratti collettivi di lavoro dagli stipendi inferiori, siglati con partner contrattuali compiacenti. Una clausola già ancorata nella Costituzione ticinese, perché iscritta nel testo dell’iniziativa approvata. Un’iniziativa nata storta e che rischia di finire peggio.

 

 

Intervista al Segretario di Unia Ticino Giangiorgio Gargantini

 

Giangiorgio Gargantini, neosegretario regionale di Unia Ticino, iniziamo da come la notizia del compromesso in Gestione sia stata accolta dal mondo sindacale. Ocst si è detta felice che vi sia un salario minimo, mentre Unia si è detta molto critica.
Il principio del salario minimo lo ha approvato la popolazione cinque anni fa. Di questo eravamo ovviamente felici, avendo lanciato anni prima un’iniziativa per il medesimo soggetto. Fuori discussione il principio, oggi il tema riguarda i livelli del salario. E di questo non c’è nulla di cui felicitarsi. Il risultato è decisamente insufficiente perché non permette di raggiungere l’obiettivo posto in votazione, come scritto nel testo: «Ogni persona ha diritto a un salario che gli assicuri un tenore di vita dignitoso». Gli importi proposti dalla Gestione sono lontani dall’essere dignitosi. La volontà popolare non è dunque stata rispettata.


Quali aspetti critici intravedete nell’importo uscito dalla Gestione?
Un salario minimo troppo basso causa degli effetti nefasti all’intero mondo lavorativo. Sdoganare l’idea che 19 franchi all’ora sia un salario rispettabile, ha delle pesanti ripercussioni. Faccio un paio di esempi pratici. Il Ccl della vendita da 3’200 franchi, prima ancora di diventare effettivo, ha influito sui dipendenti degli shop delle stazioni di servizio perché è servito per escluderli dal Ccl nazionale, più elevato di 400 franchi. Oppure, nelle ultime recenti trattative contrattuali nel terziario, ad esempio FoxTown, la dirigenza si è rifiutata di discutere di aumenti salariali perché i loro livelli sono già ampiamente superiori a quelli stabiliti dal Ccl vendita cantonale.


Tra i fautori del compromesso della Gestione, c’è chi obietta che sia irrealistico domandare un salario minimo dignitoso.

Anni fa, Unia aveva promosso l’iniziativa federale definendo dignitosa la soglia di 4mila franchi, ma fu bocciata in votazione. Svanita quella cifra, a livello cantonale, i limiti legali del salario minimo li ha definiti il Tribunale federale quando si espresse sul Canton Neuchâtel. In Ticino, ciò significa poco più di 21 franchi. Arrivare a importi più alti di quelli della Gestione, sarebbe stato possibile.


Nel progetto di legge sul salario minimo sono esclusi dall’assoggettamento i settori dove esistono dei Ccl.
Per noi è chiaro che il salario minimo debba valere per tutti. Purtroppo l’iniziativa prevedeva di escludere i Ccl, anche aziendali. Detto questo, a Unia resteranno solo tre possibilità. Dapprima l’impegno di Unia a non firmare Ccl con stipendi inferiori al salario minimo cantonale, in secondo luogo esercitare pressione affinché gli attuali Ccl in vigore si adeguino in tempi brevi al minimo stabilito e infine, vigilare e denunciare pubblicamente eventuali nuovi Ccl da stipendi inferiori siglati da partner contrattuali compiacenti.


Cosa risponde a chi sostiene che del salario minimo beneficerebbero solo i frontalieri?
È falso. Le statistiche dimostrano che con un salario minimo di 20 franchi, ne beneficerebbero 4 residenti su 10. Secondo aspetto, i settori più toccati dall’introduzione del salario minimo, sarebbero quelli dove già oggi è attiva una maggioranza di forza lavoro frontaliera. Questo perché gli attuali stipendi sono talmente bassi da escluderne automaticamente i residenti. L’introduzione di un salario minimo dignitoso, non andrebbe a beneficio solo di chi già lavora in quei rami, ma aprirebbe le porte anche ai residenti oggi esclusi.


Il padronato sostiene che un salario minimo comporterà la perdita di posti di lavoro e d’imprese.
Ci sono due tipi di aziende toccate. Il primo gruppo sono le aziende che hanno una parte non consistente di dipendenti stipendiati a livelli inferiori. Queste aziende potranno tranquillamente rialzare quei salari, ripercuotendo l’aumento su altre voci senza grandi traumi. È ciò che succede regolarmente quando sono confrontate ad aumenti dei costi derivanti dal rialzo dei prezzi delle materie prime o l’introduzione di nuove imposte che influiscono sulle loro cifre d’affari aziendali. La seconda tipologia d’imprese invece sono quelle che fondano la politica aziendale sui bassi salari, avendo gran parte dei dipendenti al di sotto dei livelli salariali oggi in discussione. Se decideranno di trasferirsi per non adeguarsi, nessuno le fermerà. Queste aziende non apportano nulla al territorio e nessuno rimpiangerà la loro partenza. Anzi, le aiuteremo personalmente a fare i bagagli.


Vista l’insoddisfazione di Unia, il sindacato lancerà un referendum contro la legge sul salario minimo?
A deciderlo saranno le istanze sindacali. Si dovrà riflettere sull’opportunità dello strumento e gli effetti che ne scaturirebbero. Un referendum vittorioso non imporrebbe un altro importo, ma rimanderebbe al Governo la questione.

Pubblicato il 

04.12.19
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