Prima tre sindacati, poi Unia

Un solo voto contrario e quattro astenuti. È con un vero plebiscito che sabato scorso, 16 ottobre, a Basilea i 502 delegati presenti hanno sancito la nascita del nuovo megasindacato Unia, frutto della fusione di Sei, Flmo e Fcta. Ancor più plebiscitaria, senza nemmeno un’opposizione, è stata la successiva elezione alla copresidenza di Unia dei ticinesi Renzo Ambrosetti e Vasco Pedrina, artefici dell’improvvisa accelerazione del processo di avvicinamento fra Flmo e Sei sul quale anche solo pochi anni fa nessuno avrebbe scommesso. E a larghissima maggioranza sono pure avvenute le nomine del comitato direttore e del comitato centrale (cfr. le risoluzioni a pag. 2). Con 200 mila membri Unia, che sarà operativo dal 1. gennaio, è il più grosso sindacato svizzero. Se alla fine i numeri hanno dissipato ogni dubbio, non per tutti la nascita di Unia è stata indolore. Soprattutto perché si trattava di prender congedo dai rispettivi sindacati di provenienza, ognuno dei quali aveva tenuto il suo ultimo congresso il giorno prima, venerdì 15 ottobre, sempre a Basilea, esibendo con orgoglio i rispettivi simboli e bandiere. E nulla come lo stile di conduzione dei dibattiti e il clima delle discussioni permetteva di capire che sì, in Unia sono confluite delle culture sindacali radicalmente diverse. Che potranno essere una ricchezza di Unia, ma che dovranno innanzitutto imparare a convivere. Il primo a decidere la fusione, già alle 16 di venerdì, è stato il Sei: un applauso spontaneo e fragoroso ha accolto il 97,5 di sì. Mezz’ora dopo è toccato alla Flmo, che ha approvato il progetto Unia con una maggioranza del 96,3 per cento di voti e un applauso che, dapprima contenuto e quasi ragionato, s’è fatto vieppiù intenso ed entusiasta. Ultima, oltre un’ora più tardi, è giunta anche la Fcta. Lì il dibattito è stato molto più acceso e la decisione di sciogliersi dolorosa. Perché, come osservava la dirigenza, in caso di mancata fusione la Fcta sarebbe stata costretta a sciogliersi entro pochi anni, lasciando disoccupati 150 collaboratori e senza tutela 20 mila iscritti. Ma, soprattutto dalla delegazione ticinese, è venuta una strenua resistenza: le accuse a Sei e Flmo sono state di usare metodi staliniani, di non aver mai considerato la Fcta nel processo di fusione e di concedere salari troppo elevati ai vertici della nascente Unia. Al momento del voto la tensione era palpabile, anche perché per statuto la Fcta doveva decidere il suo scioglimento con almeno l’80 per cento dei voti: alla fine il sì è prevalso con il 92 per cento dei voti, salutato da un applauso liberatorio. Referendum? No, per ora Referendum? Adesso no, semmai in primavera. Sabato a Basilea un’ampia maggioranza dei 502 delegati al congresso di fondazione di Unia ha evitato una fuga in avanti dicendo no al lancio immediato di un referendum contro l’estensione dell’accordo sulla libera circolazione ai nuovi paesi membri dell’Unione europea (Ue). La risoluzione della regione Ticino e Moesa, appoggiata da alcune regioni romande, è stata rispedita al mittente dai delegati che le hanno preferito la controproposta formulata dal comitato centrale. Una controproposta attendista, ma che contiene un aut aut a parlamento e associazioni padronali: se le misure accompagnatorie non passeranno indenni lo scoglio delle Camere, in primavera il sindacato lancerà il referendum. Accesasi nelle scorse settimane (cfr. area n. 41 dell’8 ottobre 2004), la discussione attorno alle strategie sindacali da mettere in atto per combattere al meglio il dumping sociale e salariale – di cui si stanno già riscontrando le prime inquietanti manifestazioni – è stata al centro del congresso di fondazione di Unia. La regione Ticino e Moesa ha presentato una risoluzione che chiedeva il lancio immediato di un referendum contro l’estensione ai nuovi paesi dell’Ue dell’accordo sulla libera circolazione. Questa sarebbe l’unica via per «costruire un nuovo rapporto di forza», denunciando da subito «la volontà padronale di smantellamento dei contratti collettivi, l’inaffidabilità di negoziatori che prima accettano e poi ritrattano» e «l’arroganza di chi come imprenditore sostiene la necessità delle misure di accompagnamento e poi come politico si adopera per affossarle», ha detto il segretario regionale Saverio Lurati, consapevole di andare «controcorrente rispetto ai nostri ideali internazionalisti». «Gli imprenditori non vogliono uomini e donne, vogliono solo braccia, come negli anni ’60», gli ha fatto eco il co-segretario Rolando Lepori per il quale lanciare ora il referendum significa «dire subito alla classe politica che non si può speculare sulla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori». Alla risoluzione di Unia Ticino e Moesa il comitato centrale ha replicato con la tesi del sostegno condizionato alla libera circolazione. In poche parole, sì all’estensione dell’accordo – perorata sabato da Micheline Calmy-Rey (si veda riquadrato) – ma solo se parlamento e associazioni padronali accetteranno e garantiranno l’attuazione delle misure accompagnatorie già concordate e di altre misure supplementari (riguardanti in particolare il collocamento, i “falsi” indipendenti e i subappalti). In assenza di misure soddisfacenti contro il dumping al termine del dibattito parlamentare previsto in dicembre, un’assemblea straordinaria di Unia deciderà del lancio di un referendum. «Siamo per la libera circolazione, ma non a ogni prezzo», ha spiegato Rita Schiavi dicendo di non volere «diverse classi di lavoratori». Sulla stessa lunghezza d’onda Corrado Pardini, segretario della regione Bienne/Soletta: «Il referendum potrebbe essere usato per dividere la nostra base fra stranieri buoni e cattivi. Non possiamo rischiare di diventare i manovali dell’Udc», ha ammonito Pardini. Jean-Claude Rennwald, membro del comitato direttivo, ha ricordato che in caso di no popolare alla libera circolazione cadranno anche gli altri accordi. Il referendum è «un mezzo di pressione importante» in vista del dibattito parlamentare, ha osservato Rennwald: «è una carta da tenere in mano fino alla fine: giocarla oggi è fare harakiri». Il lancio immediato di un referendum sarebbe «un autogoal dal punto di vista tattico» anche per il copresidente di Unia Vasco Pedrina: «ci escluderebbe dal gioco della negoziazione: voi invece adesso dovete darci i mezzi per negoziare con credibilità migliori misure accompagnatorie». Inoltre, secondo Pedrina, un referendum sarebbe vissuto male dagli immigrati che rappresentano più della metà degli iscritti al sindacato: essi «hanno paura che il lancio immediato di un referendum sia interpretato come un no all’Europa, a una Svizzera aperta agli immigrati». «Dopo il voto del 26 settembre [la bocciatura dei due progetti di naturalizzazione agevolata, ndr] non possiamo permettercelo», ha detto il copresidente di Unia invitando i delegati a «un voto della ragione». E “voto della ragione” è stato. A larga maggioranza il congresso ha accolto la risoluzione del comitato centrale Unia, rifiutando di seguire anche una “terza via” indicata dal gruppo dei lavoratori immigrati, contrari per principio – indipendentemente dall’esito dell’imminente dibattito parlamentare – a un referendum contro l’estensione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone. Un’opposizione rimasta pressoché inascoltata, così come le parole del delegato di Neuchâtel Henri Vuilliomenet – contrario anch’egli al referendum, non importa se ora o fra qualche mese – che ha ricordato: «negli anni ’60 gli italiani venivano criticati perché facevano gli straordinari e accettavano paghe basse. Oggi loro sono i nostri migliori compagni». "Un passo avanti per i sindacati"» Il presidente dell’Unione sindacale svizzera (Uss) Paul Rechsteiner ha assistito alla due giorni congressuale di venerdì e sabato scorsi a Basilea che hanno sancito la scomparsa di Sei, Flmo e Fcta e la nascita del più grande sindacato svizzero, Unia. Rechsteiner, al termine dei lavori che impressione le rimane di questi due giorni? Venerdì sono stati creati i presupposti affinché si potesse fare la fusione. Ho assistito a tutti e tre i congressi e gli stili dall’uno all’altro erano molto diversi, le diverse culture sindacali si sono rispecchiate nei dibattiti. Il dibattito più difficile l’ha dovuto compiere la Fcta, perché la sua situazione era indubbiamente la più critica: per gli altri due sindacati invece la fusione non era un mezzo per superare le proprie debolezze, ma un’occasione per fare un passo ulteriore mettendo a frutto le rispettive forze. In generale è senz’altro un momento storico per il movimento sindacale, un chiaro passo in avanti. La creazione di un grosso sindacato interprofessionale è infatti il presupposto per una sindacalizzazione decisa del terziario. Inoltre i sindacati devono saper rispondere alle trasformazioni della società e del mondo del lavoro. Con questa fusione Unia dimostra che il movimento sindacale svizzero è vitale ed in grado di espandersi nel settore dei servizi consolidandosi nel contempo nei suoi settori tradizionali d’intervento. Unia sarà all’altezza dei suoi ambiziosi obiettivi? A giudicare dal dibattito di sabato c’è da essere fiduciosi. Certo bisogna essere coscienti che si tratta di un progetto enorme e che le fasi decisive devono ancora arrivare: Unia è un progetto al quale si deve dare vita. Non basta essere grossi, ma ci vuole anche dinamismo, la consapevolezza dei membri, l’impegno a ringiovanire i ranghi e ad accogliere più donne. Il sindacato in futuro dovrà inoltre passare attraverso un ricambio generazionale. Non c’è dubbio però che proprio il movimento sindacale avrà un ruolo decisivo nel determinare se la Svizzera diventerà più antisociale o se al contrario si riuscirà a realizzare le riforme sociali e a tener conto seriamente delle esigenze dei lavoratori. Unia è uno specchio come nessun’altra organizzazione dei ceti lavorativi, la sua capacità di raccogliere la sfida che si è posta sarà decisiva per il futuro del paese. L’Uss è il braccio politico dei sindacati: cosa cambia per voi con la nascita di Unia, un sindacato che da subito si profila come fortemente politicizzato? Negli ultimi anni i sindacati si sono fortemente politicizzati, non in senso politico-partitico, ma politico-sociale. È chiaro che con la nascita di Unia anche l’Uss diventa più forte. Per noi le questioni di politica sociale sono in primo piano: e se la difesa degli interessi dei ceti lavorativi passa attraverso gli strumenti della politica (in particolare iniziativa e referendum) non c’è dubbio che vi facciamo ricorso. I sindacati devono però continuare a considerarsi indipendenti dai partiti, anche perché la maggioranza dei nostri iscritti non è membro di alcun partito. D’altro canto dobbiamo saper avere influsso sui partiti: per questo è molto importante che nelle questioni fondamentali il Pss e i Verdi assumano le stesse posizioni dei sindacati, altrimenti non possiamo aver successo. Cerchiamo inoltre alleanze con uno spettro più ampio possibile per giungere sui diversi temi ad un consenso vasto sulle nostre posizioni, ma con il clima politico di oggi è molto difficile presso i partiti borghesi ottenere ascolto, persino nel Ppd. Unia è ora di gran lunga il sindacato più forte dell’Uss: questo superpotere non le fa paura? L’Uss ha lo scopo di riunire gli interessi settoriali delle diverse federazioni che da sole sarebbero troppo deboli per far breccia nell’opinione pubblica allo scopo di rappresentarli con più forza grazie alla solidarietà di tutti gli altri. Inoltre dove si tratta di interessi comuni (ad esempio per l’Avs) cerchiamo di costruire ampie coalizioni. Per questo credo che l’Uss conservi intatto il suo ruolo. Non credo che Unia sarà dominante nell’Uss, anche perché la stessa Unia al suo interno proprio come l’Uss è molto variegata e dovrà quindi tener conto di tutte le sue componenti. Oggi le sfide politiche ed economiche sono tante e importanti: che un sindacato forte come Unia sia membro dell’Uss ne può soltanto rafforzare a sua volta la capacità d’impatto. Cosa ne pensa della richiesta della sezione Ticino e Moesa di Unia di decidere subito il lancio di un referendum contro l’estensione ad Est degli accordi sulla libera circolazione delle persone con l’Unione europea? È precipitosa. La difesa dei salari è da anni una priorità dei sindacati. Le nostre posizioni su questo tema sono state elaborate da tempo sulla base di ampie analisi e discussioni: siamo disposti a sostenere l’allargamento ad Est soltanto se verranno prese misure efficaci contro il dumping salariale e sociale. Ora che il pacchetto dei bilaterali II è stato definito anche con il nostro contributo ci atterremo ad esso: le misure contro il dumping vi sono previste, si tratta di applicarle concretamente nella realtà di tutti i giorni e di colmare le lacune che riscontriamo oggi nell’attuazione dei bilaterali I. Bisogna ad esempio fare in modo che le commissioni tripartite siano attivate ovunque e che funzionino correttamente, rispettivamente che si faccia uso della facoltà di decretare salari minimi reali validi per tutti, possibilità che è stata introdotta per la prima volta in Svizzera con i bilaterali I. Gli strumenti ci sono, bisogna imparare come funzionano e poi usarli concretamente nella pratica quotidiana: altrimenti sono inutili. Sono cosciente che ci sono cantoni e datori di lavoro che vogliono sabotare questo sistema, ma è solo attivandolo che faremo davvero l’interesse dei nostri associati. Lei sulla questione dei bilaterali ha dunque fiducia nel parlamento? Fiducia no. È quindi importante che manteniamo alta la pressione. Il congresso di Unia ha evidenziato quanto sia drammatica la situazione, e proprio il dumping registrato in questi primi mesi dall’entrata in vigore dei bilaterali I sarà uno dei temi della manifestazione di Unia del 30 ottobre. Si tratta però di trovare la risposta giusta a questo problema: decidere adesso, prima del dibattito parlamentare, di lanciare il referendum come ha fatto l’Asni non è certamente la risposta giusta. Il congresso di Unia ha adottato, su proposta dei giovani, una definizione del diritto allo sciopero più radicale di quella proposta dai vertici del nuovo sindacato. Come interpreta questo voto? I sindacati svizzeri già negli ultimi anni sono diventati molto più combattivi. Del resto fino agli anni ’50 in Svizzera non si scioperava meno che negli altri paesi industrializzati. Poi sono seguiti 30 anni di crescita dei salari e di estensione dello Stato sociale durante i quali, assieme ai numerosi miti della guerra fredda, è stato costruito anche quello della pace sociale assoluta. È un mito costruito dalla destra e dal padronato, ma che i sindacati avevano in parte introiettato e fatto proprio. Ora, dalla fine degli anni ’90, i sindacati si stanno riappropriando dell’ovvia arma dello sciopero, e con il suo voto il congresso di Unia dimostra che si tratta di un’arma spuntata se non si è disposti a farne uso quando è necessaria. Con la sua nascita del resto Unia crea condizioni del tutto nuove anche per il ricorso allo sciopero e per la sua efficacia. Ma certamente non basta un voto al congresso per modificare la realtà sociale. "Risposta all'avidità del capitale" Per la storia del sindacato svizzero, sabato scorso a Basilea, è stata posata una pietra miliare. La nascita di Unia, il più grande sindacato svizzero, è la risposta ai profondi mutamenti economici e sociali in atto in un paese in cui le lavoratrici e i lavoratori sono sempre più confrontati ai processi di ristrutturazioni, di flessibilità e di profonde trasformazioni del mercato del lavoro. «Oggi scriviamo una nuova pagina della nostra storia», ha detto il neoeletto copresidente di Unia Vasco Pedrina al congresso che ha sancito la fusione delle federazioni sindacali Flmo, Sei, Fcta, unia e Actiona in un unico corpo. Una pagina che ha richiesto un processo evolutivo nel quale, ha ricordato Pedrina, «abbiamo imparato ad esercitare una solidarietà intersettoriale». grazie alla quale è stata possibile la grande svolta. Un’organizzazione chiusa in sé, – ha sottolineato dal canto suo l’altro copresidente di Unia Renzo Ambrosetti – «non consapevole del fatto che è necessario essere aperti verso l’esterno e verso gli altri per affrontare il futuro in modo nuovo, è destinata al fallimento». E i due copresidenti hanno ricordato a quali sfide Unia è chiamata e per le quali si batterà: per una società e uno sviluppo economico e sociale al servizio di tutti e nel rispetto dell’ambiente. Unia come argine agli attacchi della destra e del centro fautori dello smantellamento sociale in atto. Per questo, ha detto Ambrosetti, nello statuto di Unia sono stati introdotti i valori che permeeranno la sua azione sindacale, quelli della solidarietà, della giustizia sociale, della parità, della libertà, della democrazia e della tolleranza. Strutturato in quattro settori professionali (industria, costruzioni, artigianato e terziario), Unia ingloberà 60 rami professionali e 500 contratti collettivi di lavoro che interessano su tutto il territorio elvetico circa un milione di lavoratrici e lavoratori. Ragion per cui «la politica contrattuale e il partenariato sociale – ha detto Ambrosetti – saranno elementi di progresso determinanti la politica e l’azione del nuovo sindacato». E qui il copresidente ha tenuto a precisare: «Ma, sia chiaro: partenariato sociale non significa che il sindacato e i suoi membri si lasceranno manipolare. I sindacati non devono più favorire la deregolamentazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro». Un impegno di fermezza e di lotta ribadito anche da Vasco Pedrina che ha reso attenti a come il mutamento del mercato del lavoro ha portato ad una forte mobilità professionale e a conseguenze dai risvolti preoccupanti: «sono sempre più numerose – ha ricordato Pedrina – le persone che vendono la propria forza lavoro a condizioni indecorose e che, malgrado occupino un posto a tempo pieno, non sono in grado di autosostentarsi con il proprio salario. Per contro i manager e i loro padroni, che hanno indegnamente lucrato anche durante la crisi degli ultimi 15 anni, hanno stipendi e utili smodatamente elevati». Unia è, ha continuato Pedrina, «il presidio di tutti i lavoratori e lavoratrici del settore privato, è la risposta sindacale all’avidità sempre più smodata del Capitale». Contro lo smantellamento sociale messo in atto dalla destra e dal centro, Unia è pronta a lanciare la sua nuova offensiva e lo farà – come ha già fatto finora – invitando al suo fianco le forze politiche e i movimenti impegnati nella difesa dei diritti di tutti i cittadini e lavoratori fortemente penalizzati da uno stato sociale sempre più minato. Sulla base dei successi conquistati, cresceranno le nuove sfide di Unia. Dall’introduzione del pre-pensionamento flessibile – conquistato nel ramo della costruzione – per tutti i salariati che svolgono lavori pesanti all’estensione di un contratto collettivo per tutti, soprattutto per le lavoratrici e i lavoratori vittime del crescente dumping salariale e sociale. Una contrattazione collettiva che le stesse misure di accompagnamento agli accordi bilaterali con l’Ue riconoscono come essenziali nella tutela dei lavoratori . Altro punto su cui Ambrosetti si è soffermato è il “lavoro internazionale”: «Oltre la metà dei membri di Unia sono migranti. Ciò ci impone di assumere precise responsabilità nel campo dell’integrazione degli stranieri. L’esito negativo delle votazioni sulle naturalizzazioni di tre settimane fa deve indurci a diventare ancora più attivi e propositivi. Nell’emigrazione si trovano spesso le cerchie di lavoratori e lavoratrici più bisognose di sostegno sindacale (ristorazione, vendita dove esistono condizioni di lavoro precarie)». Dunque grandi sfide attendono Unia che nella sua nuova formula d’ora in poi sarà il Sindacato per antonomasia. «Unia – ha concluso Ambrosetti – non è la realizzazione di un obiettivo finale, ma una nuova tappa nel cammino del rinnovamento sindacale». Primo sciopero e prima vittoria «È stata dura, Edgar Oehler è una persona difficile con cui trattare. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta: dopo un giorno di sciopero e otto ore di trattative lui ha ceduto e ci ha dato la garanzia che verranno mantenute anche in futuro le attuali condizioni di lavoro dei dipendenti del reparto spedizioni della ditta Piatti». Così Udo Michel, responsabile della sezione di Zurigo del sindacato Unia-Sei, riassume l’esito del primo sciopero condotto sotto le bandiere del nuovo sindacato. A nemmeno 48 ore dal congresso di Basilea che aveva sancito la nascita di Unia. Ad aver incrociato le braccia lunedì sono stati i 16 dipendenti del reparto spedizioni della Bruno Piatti Ag di Dietlikon, celebre fabbrica di cucine di proprietà dell’ex consigliere nazionale Ppd Edgar Oehler che l’ha rilevata all’inizio di quest’anno dalla massa fallimentare del gruppo Erb per incorporarla nella sua Arbonia Forster Gruppe. Lo sciopero è stato deciso perché la Arbonia Forster Gruppe vuole scorporare il reparto spedizione dalla Bruno Piatti Ag per ridurre i costi e affidarlo alla Camion Transport Wil (Ctw). Conseguenza per i 16 dipendenti interessati dalla misura: più nessuna tredicesima, massiccia riduzione degli stipendi (fino al 20 per cento), aumento dell’orario di lavoro e diminuzione delle vacanze. E questo benché la Arbonia Forster Gruppe preveda per il 2004 un utile al netto delle tasse di 30 milioni di franchi. I lavoratori erano scioccati: Nelson Pena, che alla Piatti guadagna 4’780 franchi al mese, ne avrebbe dovuti ricevere ancora 4’180: «come potrei vivere, ho un figlio e presto ne arriva un altro». L’accordo raggiunto prevede che lo scorporo del reparto spedizioni della Piatti alla Ctw avvenga con il coinvolgimento di tutte le parti interessate senza peggioramenti delle condizioni di lavoro degli impiegati. Che cosa ha determinato il successo dello sciopero? «I lavoratori interessati sono stati molto decisi e uniti», risponde Michel: «hanno deciso all’unanimità di scioperare e hanno dimostrato una notevole determinazione. Inoltre per Oehler la pressione era forte: rischiava una grave perdita sia nella produzione che nell’immagine», conclude Michel.

Pubblicato il

22.10.2004 01:00
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