Quella banca che ti fa male

A volte dietro alle nubi c’è il sole, ma non per tutti. Almeno non per Margherita. Per le banche svizzere invece il 2003 ha brillato dopo gli anni bui della bolla speculativa della “new economy”: l’utile al netto di ammortamenti e imposte per l’insieme degli istituti bancari è stato di quasi 13 miliardi di franchi. Molto meno luminoso è stato invece l’anno scorso per il personale, sono stati cancellati 5.410 posti di lavoro (nel 2002 ne erano già stati soppressi 2.740). A detta delle banche utili record e tagli del personale non sono da vedere in contrapposizione. “Tagliare oggi per poter continuare ad occupare anche domani”, questa la logica che dovrebbe spiegare i numerosi licenziamenti. Ma in banca si sta male. Da un recente studio pubblicato dall’Ufficio di statistica del canton Ticino (vedi area n.25 del 18 giugno 2004) risulta che i bancari sono in generale più insoddisfatti e più stressati degli altri lavoratori dipendenti e che per stare meglio assumono maggiori quantità di psicofarmaci. Area propone in questo numero una testimonianza di una ex impiegata di banca che dopo 30 anni di lavoro nello stesso istituto bancario è stata messa alla porta. Margherita (il nome è di fantasia) non vuole rivelare la sua identità, ha paura di ritorsioni da parte della banca che le versa, ancora per pochi mesi, una parte dello stipendio. Eros Pastore, presidente della Sezione Ticino dell’Associazione svizzera degli impiegati di banca, ci ha detto che la storia di Margherita è una come tante. Storie di persone di mezza età che dopo una vita di lavoro hanno ricevuto il benservito dalla banca che si “ristruttura”. Cambiano le direzioni e muta la filosofia, la parola d’ordine diventa “rendere” e l’esperienza di coloro che hanno fatto la storia dell’istituto non conta più nulla. «Ma la cosa che mi fa ancor più male è che nessuno dei superiori è venuto a cercarmi durante la mia malattia. Non una telefonata, non una visita. Che tristezza, per loro ero solo un numero che non c’era. Lo sapevo che era così fin dal primo giorno che sono arrivati, ma speravo comunque in un piccolo gesto di umanità. Non si sono accorti che stavo sull’ultimo scalino e da lì mi hanno fatto cadere», ci ha detto Margherita. «Mi hanno fatto sentire una nullità, uno zero», questa è la frase che Margherita ripete più volte mentre ci racconta ciò che le è successo anno scorso. «A cosa serve parlare della mia storia? Quello che mi è accaduto l’ho discusso con pochissime persone, e a volte vorrei che nessun altro sapesse». Ma Margherita non ha fatto nulla di male, non ha commesso alcun crimine. Ha invece passato più di trent’anni in banca, 30 anni di lavoro apprezzato da superiori e colleghi prima di essere messa alla porta in malomodo. «Le impiegate giovani riuscivano a fare 100 registrazioni al giorno, io arrivavo solo a una settantina –, ci dice dopo una lunga pausa e aggiunge – “rendere”, sempre quella parola, come la odio. Mi gira ancora nella testa». Questa di Margherita, come lei stessa ci ha detto, è una storia come tante «ma è la mia». Una sorte comune a parecchi impiegati di banca di mezza età che nell’ultimo decennio sono stati licenziati o, con ancor più freddo calcolo, accompagnati a braccio verso la porta scorrevole, “grazie ma non ci servi più, sei troppo lento, puoi andartene, meglio per tutti se di tua spontanea volontà”. «La parola licenziamento non veniva mai pronunciata apertamente – dice Margherita –, all’inizio i nuovi dirigenti dicevano, ad alta voce di modo che potessero sentire tutti, che nell’ufficio c’era gente che guadagnava troppo e non rendeva a sufficienza. Il lavoro era sempre lo stesso di prima, solo che era cambiato il modo di eseguirlo, dalla macchina da scrivere e dall’archivio siamo passati al computer. Io mi ci stavo abituando, anche se so che non avrei mai potuto raggiungere la velocità degli impiegati più giovani. Non ce la facevo ad essere brillante come loro. A cinquant’anni passati è difficile cambiare metodo di lavoro in un sol colpo. Ma io ce l’ho messa tutta, davvero ce la mettevo tutta. La mia esperienza? Non contava più nulla, col nuovo sistema era tutto preconfezionato. Lei mi crede vero?», ci dice l’ex impiegata di banca. Dopo la ristrutturazione dell’istituto bancario dove lavorava Margherita, i vecchi dirigenti sono stati mandati in pensione. La direzione è stata rinnovata e il nuovo spirito aziendale richiede più performance da parte degli impiegati. Più impegno nel lavoro per poter sfoggiare utili più cospicui sia alle assemblee degli azionisti che alla sede centrale. «Una volta lavorare per me era piacevole, mi succedeva raramente di sedermi di malavoglia alla scrivania. Con i colleghi c’era una certa familiarità, potevi raccontare un po’ di te e ascoltare. Con la nuova direzione le cose erano cambiate all’improvviso, era chiaro per tutti che non si doveva alzare la testa. L’ambiente si era guastato e parecchi se ne sono andati via, specialmente gente della mia età. I nuovi impiegati, quasi tutti giovani al primo impiego, erano messi sotto pressione. È incredibile come le persone sotto stress cambiano, non ci si parlava più e si era diventati tutti più guardinghi. Quasi ostili. Ogni tanto i superiori passavano nei corridoi e ci dicevano che dovevamo essere più efficienti, ce lo ripetevano in tutti i modi e spesso all’ultima sillaba di “rendere” lo sguardo era rivolto proprio a me». Col tempo quelle che a Margherita sembravano autosuggestioni trovano però conferma nelle sempre più esplicite critiche che i suoi superiori le rivolgono, quasi quotidianamente. Sempre le stesse, troppo lenta col computer, poco flessibile, registrazioni contabili sì ben fatte ma insufficienti in quantità e poi la paga troppo alta per quello che dà all’impresa. «Vorrei precisare una cosa: non sono stata io a decidere il mio salario. Quanto mi pagavano? Cinque mila franchi lordi al mese. Sì, questo era il mio stipendio dopo 30 anni di lavoro. Ma sono stati loro a darmeli, io non ho mai preteso nulla. Per favore questo lo scriva nel giornale», ha tenuto a dire Margherita che ci ha chiamato al telefono dopo alcuni giorni dall’incontro. Il momento più pesante per Margherita è però arrivato all’inizio dell’anno scorso. Dopo una malattia durata un mese rientra in ufficio, ad aspettarla c’è il capo del personale che senza mezzi termini le dice: «lei è già lenta quando c’è, se in più fa delle assenze non andiamo proprio bene…». Quei tre punti di sospensione le pesano come un macigno. Per cercare di assottigliare la differenza di registrazioni contabili fra lei e le sue colleghe Margherita non va più nemmeno in pausa. Lavoro filato tutto d’un fiato. Dalle otto alle sei di sera. «Non guardavo neanche più in faccia i miei colleghi, mi sentivo una nullità. A volte mi dicevo che forse non ho mai fatto bene il mio lavoro». A causa delle preoccupazioni non riesce più a dormire e nonostante gli sforzi la quantità di dossier trattati giornalmente al lavoro non aumenta, almeno non a sufficienza a detta della direzione. Da questo momento in avanti le cose precipitano in fretta. «Un lunedì mattina ero a letto e non riuscivo proprio ad alzarmi, le gambe non volevano muoversi. A mio marito ho detto che non ce la facevo proprio ad iniziare una nuova settimana. Sono andata dal medico, ero esaurita. Il dottore mi ha detto che al lavoro non potevo tornare, avevo assoluto bisogno di riposo». Dopo poche settimane la banca le invia una lettera «anche se lei si riprende non ce la sentiamo più di farla lavorare con noi…». È il colpo finale, Margherita non sa cosa fare. Il medico le consiglia di rivolgersi all’Associazione svizzera degli impiegati di banca (Asib). Grazie all’Asib riesce a spuntare un accordo finanziario. L’azienda e le sue assicurazioni le pagano una parte dello stipendio, ma ancora per poco. «Mi sentivo giudicata senza processo, non mi davano neanche la possibilità di un colloquio, solo due righe su una lettera dopo una vita passata in quella banca. Ma la cosa che mi fa ancor più male è che nessuno dei superiori è venuto a cercarmi durante la mia malattia. Non una telefonata, non una visita. Che tristezza, per loro ero solo un numero che non c’era. Lo sapevo che era così fin dal primo giorno che sono arrivati, ma speravo comunque in un piccolo gesto di umanità. Non si sono accorti che stavo sull’ultimo scalino e da lì mi hanno fatto cadere», dice con amarezza l’ex bancaria. Ma la fine di un lavoro, delle pressioni subite potrebbe anche essere positivo per la sua salute. Margherita non deve più “rendere” a ritmi folli. Forse alla sua età si può anche decidere di uscire dall’ingranaggio economico. «Il mio problema è che non riesco più a guardare in faccia la realtà, mi sono chiusa in casa. Mi sento svalutata, non ho neppure avuto il coraggio di raccontare questa storia fino in fondo ai miei fratelli. La mia famiglia rischia di finire sul marciapiede, è un pensiero fisso dal primo giorno che sono stata male. Mi sento colpevole. Non gliel’avevo detto? Sono io il sostegno della mia famiglia, l’unica paga la portavo io». Margherita aveva provato a spiegare ai superiori la sua situazione, glielo avevo detto chiaramente che aveva bisogno di lavorare e che ce l’avrebbe messa tutta. Il commento del direttore a Margherita è rimasto stampato in mente: «la tua famiglia non ci interessa, noi vogliamo solo che rendi di più».

Pubblicato il

02.07.2004 01:00
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