Quella è la porta: vattene

La specialista: “Comunicare un licenziamento genera sempre dolore, ma se detta con umanità lo choc è minore”

La sofferenza generata dal lavoro. Parliamo di coloro che lo cercano disperatamente; ma pure di chi un posto lo ha assieme a un cappio al collo per farlo produrre di più o di quelli che si ammazzano di fatica per tre soldi. Ma anche di coloro per i quali “se non ti sta bene, quella è la porta”: un refrain usato a mo’ di minaccia da capi e capetti. Non solo intimidazione, ma pure nuovo modus operandi per attuare licenziamenti brutali quando  si è invitati ad andarsene subito. Accompagnati alla porta, ed è choc.

È la nuova moda. Per licenziare morbidamente – morbidamente per l’azienda si intende – il dipendente viene chiamato in ufficio senza preavvisi e a bruciapelo gli si spara in faccia che è licenziato. Che può, anzi deve in quel preciso momento prendere i suoi effetti personali e deve lasciare subito il luogo di lavoro. No, non dovrà lavorare fino al termine legale della disdetta: via, sciò, via subito come un appestato. Una “moda” che sta diventando prassi in Ticino, in particolare nel campo finanziario, come ad esempio banche e assicurazioni sottoposte negli ultimi anni ad importanti ristrutturazioni, che licenziano mirando con freddezza da cecchini sia i dipendenti medio-bassi, che i quadri superiori.


Neanche al “Grande fratello”, una delle trasmissioni televisive fondate sull’estremizzazione del cinismo e del mancato rispetto delle basilari regole di rispetto umano, si arriva a tanto: uno prima finisce in “nomination” ed è preparato al fatto che potrebbe dover abbandonare il gioco la settimana successiva. Qui, invece una persona, forse dopo anni di lavoro in una ditta, nella quale si immedesima pure, arriva una mattina come le altre, ma quel giorno potrà capovolgergli l’esistenza. Perché un licenziamento sconvolge. La perdita del posto di lavoro è un evento traumatico che ha implicazioni a livello psichico, sociale, relazionale: il licenziamento mina la propria identità professionale, le proprie certezze, le relazioni con i familiari. Al sindacato arrivano sempre più segnalazioni di questo tipo (vedi articolo sotto) e lo stesso fenomeno lo registra pure il Laboratorio di psicopatologia del lavoro, un servizio pubblico di consulenza per i cittadini confrontati con problematiche legate alla sfera professionale. Comunicazioni delicate, che scardinano e in qualche caso deflagrano gli equilibri personali, date come semplici informazioni di servizio. Ignorando o non interessandosi al fatto che in alcuni casi «il licenziamento per una persona è paragonabile a un lutto. È un evento fortemente traumatico che porta con sé una serie di implicazioni emotive che se non gestite al meglio possono causare danni psicologici» sottolinea Liala Cattaneo, coordinatrice del Laboratorio di psicopatologia del lavoro.


Se non vogliamo chiamarla emergenza sociale, per non assumere toni allarmistici, va però considerata una priorità. Tanto che da più di dieci anni è stato attivato il laboratorio sulla base dell’osservazione e dall’impressionante aumento di psicopatologie causate dalla situazione lavorativa delle persone. Con implicazioni personali e costi sociali alti. Tutta la società ne paga infine il conto.


Liala Cattaneo, che cosa è un licenziamento brutale? O un licenziamento è duro in qualunque modo lo si comunichi?
Possiamo parlare di licenziamenti che sono più dolorosi, come quelli ad esempio comunicati via sms o con un’email. Quelli fatti di fretta, senza concedere spazio al dialogo, senza una parola di spiegazione o un “mi dispiace”, che se detto potrebbe lenire e contenere in parte la sofferenza. Certo, un licenziamento è duro, è sempre un brutto colpo, soprattutto se si è legati all’azienda e ci si identifica e, ovviamente, più sono gli anni di servizio, più risulta pesante. Ma le parole contano. Le parole possono fare la differenza. In questo senso, sì, possiamo dire che c’è modo e modo di licenziare e il tutto si riassume nella parola umanità.


Qualcuno potrebbe dire che non è uno psicologo o un assistente sociale... Che, insomma, siamo tutti adulti...
In qualunque relazione, di qualunque tipo essa sia, esistono modalità che sono accettabili e altre no. C’è una comunicazione da fare? Si prende il tempo per guardare la persona negli occhi e si può adottare un atteggiamento empatico, pur dovendo dare una comunicazione  drastica. Importante anche che a dare la notizia sia la persona di riferimento del dipendente, il superiore diretto e che non deleghi ad altri. Le persone che si rivolgono a noi lamentano spesso il modo in cui sono state licenziate, la freddezza, il distacco, l’indifferenza mostrata nei loro riguardi, più che il fatto in sé. Le reazioni, poi come è ovvio che sia, cambiano da individuo a individuo, ogni soggetto è unico, ha la sua storia e reagisce per vissuto e strumenti propri.


Il modo in cui si comunica è davvero così centrale per ridurre la sofferenza?
Sì, un licenziamento addolora, ma può generare anche un senso di rabbia, di frustrazione, se ci si è sentiti umiliati, se si è avvertito che la propria dignità è stata lesa. E questo capita quando la componente umana nel comunicare un licenziamento viene a mancare. Una maniera sicura per amplificare lo choc della notizia. Occorre poi dare modo di separarsi dal luogo di lavoro e dai colleghi. È chiaro che l’invito alle aziende è di prestare attenzione ai rapporti umani e alle relazioni anche e soprattutto quando si devono dare brutte notizie. Il trend che pare andare di moda invece è quello degli squali, che accompagnano letteralmente  alla porta colui che in una frazione di secondo passa da dipendente a ex dipendente.

Pubblicato il

12.10.2017 10:45
Raffaella Brignoni
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