Quelle multinazionali che licenziano

Se diciamo “la tech licenzia in massa”, alludendo a tutto quanto avviene nell’alta tecnologia “americana” o a quanto sta capitando nelle multinazionali di quel settore, forse il lettore di area rimane colpito dalla notizia (fosse solo perché fa capo o usa quella tecnologia), ma la sente come lontana, un problema che riguarda altri. Eppure non è così. Quel che sta capitando non è cosa di poco conto, non è cosa lontana, non può lasciarci indifferenti, è sintomo e conseguenza di una crisi ben più significativa, delle cui cause dobbiamo tener conto e anche, per quanto paradossale possa sembrare, approfittarne per sovvertirle. La “tech licenzia in massa”. Meta, casa madre di Facebook (che abita anche in casa nostra) licenzia di botto, da un giorno all’altro, 11mila persone; Twitter appena acquistata dal multimiliardario americano Musk (quello che un nostro faro della finanza definiva su un quotidiano ticinese imprenditore modello, straordinario, assetato solo di libertà), dimezza subito gli effettivi (3.700 persone).

 

Seguono via via altri, sulla stessa scia: la società di pagamento universale Stripe si libera di mille impiegati; Salesforce, gigante del software d’impresa (programmi informatici) licenzia centinaia di dipendenti; la nota società di trasporto Lyft, altamente tecnologizzata, si sbarazza di 700 persone; Snap, casa madre dell’applicazione Snapchat, sopprime il 20 per cento degli effettivi (1.200 persone). Sembra che la lista non debba finire qui, perché tutti i cosiddetti “giganti della tech” annunciano l’uno dopo l’altro grandi ristrutturazioni in corso. Si attende ciò che capiterà ad Amazon o Alphabet, casa madre di Google. Quasi come “controcanto” a questa moria di impiegati si possono rilevare due fatti. Una motivazione pressoché all’unisono: la produttività non è più all’altezza di quanto ci attendiamo. All’annuncio dei licenziamenti i costi borsistici della varie multinazionali hanno invertito rotta (avevano subito un calo dal 50 al 70 per cento dall’inizio dell’anno) e hanno subito ripreso a salire gioiosamente.

 

Perché tutto questo non è lontano, non può lasciarci indifferenti, può persino esserci illuminante? Un pizzico di storia, dapprima. Con la rottura introdotta dal neoliberalismo negli anni 80 e la mondializzazione che l’ha accompagnata, si è introdotto un modello economico particolare. Basato sulla creazione di valore per l’azionista (e il maggior azionista è sempre il “padrone” della multinazionale, sempre ultramiliardario). Il cui scopo è quindi ridurre i costi con tutti i mezzi possibili, dando priorità assoluta all’aumento dei profitti. I maggiori ostacoli saranno quindi sempre il costo del lavoro e la produttività (o, in termini semplici, il rendimento insufficiente per lavoratore occupato o ora lavorata). La caccia ai costi significa licenziamenti, maggior pressione sui lavoratori, ricorso al precariato, immobilità salariale. Significa però anche poter (dover) garantire agli azionisti una sempre maggiore distribuzione di dividendi... per rimanere in sella. Si aggiunga ora che i maggiori profitti si possono alimentare, date le circostanze, con richieste di prezzi maggiori (come stanno pure facendo, con piccoli trucchi, la nuova Twitter di Musk o la Meta di Zuckerberg o la Amazon di Besos) e troviamo così in buona misura una risposta anche al problema dell’inflazione, divenuta paradossale opportunità di maggior profitto. Inflazione, infatti, non generata, come si tende ora a far credere (vedi ad esempio edilizia) dalla spirale prezzi/salari, ma dalla spirale prezzi/ profitti. Ci sarebbe quanto basta almeno per un buon... programma di sinistra.

Pubblicato il

17.11.2022 09:44
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