Quello che trasporta le parole

Sarà un fiume di parole, un intrecciarsi di suoni, un rincorrersi di frasi, un costruirsi di sensi, sempre nuovi e sempre sorprendenti. Sarà Alessandro Bergonzoni, attesissimo protagonista domani sera, sabato 27 gennaio, sul palco del Mercato Coperto di Mendrisio con il suo più recente spettacolo teatrale, quel "Predisporsi al micidiale" che da due anni e mezzo tiene con successo i cartelloni di tutta Italia e che ha ottenuto il Premio della critica 2005 quale miglior spettacolo comico dell'anno. L'incasso della serata, che dopo lo spettacolo proporrà anche l'esibizione del gruppo jazz "Muratori felici" e una degustazione di salumi e vino, sarà devoluto all'Associazione per l'aiuto medico al Centro America (Amca). Bergonzoni, 48 anni, è già stato più volte ospite dei palchi ticinesi nel suo doppio ruolo di attore e autore. È anche autore di libri (ne ha scritti cinque) ed è pure interprete radiofonico e cinematografico. Ma rifugge dalla gloria effimera della televisione. In questa intervista a ruota libera spiega perché e presenta lo spettacolo di Mendrisio, organizzato in collaborazione con area.

Alessandro Bergonzoni, "micidiale" è un termine con un'accezione piuttosto negativa…
Infatti parlo di due tipi di micidiale: uno reale, che è la retorica del volemose bene, della vittoria sportiva, è il populismo, il discorso da bar; l'altro irreale, che è l'altrove, l'oltre, l'altro, il trascendente, il bisogno di immaginazione, di surrealtà e di astrattezza. Per me quindi predisporsi al micidiale ha una connotazione non tanto negativa quanto violenta: di violenza intellettuale.
Lei si rivolge più al cervello che al cuore dello spettatore.
Se con cervello si intende dimenticare tutto quel cuore che è pancia, intestino, finta passione televisivo-rotocalchistica, sì: mi rivolgo a quel cervello. Mi rivolgo al cervello dell'anima.
Ci vive male nella società mediatica di oggi?
Da spettatore malissimo. Da artista e autore in maniera ribelle e molto molto arrabbiata.
C'è un'importante fetta di pubblico che in lei si riconosce, e che trova in lei quel che nei media e nella società non trova più. Non le fa paura questo ruolo?
Riconoscersi in un autore o in uno scrittore è cosa folle nel senso più negativo e becero del termine, perché vuole dire avere a che fare con qualcuno che la pensa uguale o che sposa la stessa ideologia. Nel mio caso, siccome i numeri non sono così puttaneschi e televisivi, da capopopolo, la gente più che riconoscersi in me comincia ad accodarsi lungo la strada che voglio fare io. Che è una cosa differente dal riconoscersi, rispettivamente sentirsi un capopopolo, che oggi è proprio solo della politica o degli idoli di bassa lega (che sono i rappresentanti televisivi pubblicitari). Io lo considero più un mettersi insieme in fila indiana per andare altrove.
Che ricorda un po' una performance che lei ha tenuto al Festivaletteratura di Mantova e che si trova anche sul suo sito internet: lei su un furgone che legge per le vie della città e dietro la gente che la segue…
Esatto. Io non ho inventato nulla, né il pifferaio magico né i fratelli Marx. Tante cose che io stimo o cerco sono già state trovate. Quel che non è stato trovato è il modo di andarci dentro ancora lavandosi dallo sporco naturale di quello che è tutto economia, tutta amministrazione, tutta pubblicità, tutta promozione. Io non sono contro queste voci. Noto che sono diventate la mira e il risultato, oltre che l'inizio. È questo che è sconvolgente. Io non ce l'avrei con la televisione se essa fosse solo un mezzo e non fosse diventata anche il risultato, il fine. Non ce l'avrei con Mike Bongiorno se non fosse diventato un'icona che quando entra lui in uno studio la gente si alza in piedi. Non ce l'avrei con i rotocalchi di bassa lega se restassero rotocalchi di bassa lega e non fossero recensiti da intellettuali e uomini di cultura che dicono che quella è la nuova cultura zavattiniana. Questo è quello che mi uccide: non è il valore in sé e per sé delle cose, è la non-differenza, la gente che non fa più la differenza fra le cose. Io non ce l'ho con l'hamburger e non sostengo la nouvelle cuisine: quel che sostengo è che c'è differenza fra l'uno e l'altra. Quando si fa tutto uguale e non ci sono più sapori bisogna fare qualcosa di rivoluzionario.
Non è però colpa della televisione se offre i programmi che il pubblico le chiede…
È un'osservazione importante che condivido: io do dei conniventi e dei colpevoli a noi fruitori di certa tv. Ne siamo complici. Però mi si permetta: il giro adesso sta diventando vizioso. Perché una tv accesa non è ancora una tv guardata. E bisognerebbe vedere cosa accadrebbe se chi fa palinsesti, chi fa spettacoli teatrali, chi fa libri cominciasse a dimenticarsi del referente e si mettesse a creare. Chi crea teatro, chi crea libri, chi crea opere d'arte non fa il verso a nessuno, non fa della parodia: deve fare delle cose nuove. Se questo cominciasse a diventare un meccanismo rispettoso artisticamente, allora si uscirebbe dal giro vizioso del pubblico che guarda lo schifo che si fa perché c'è il pubblico che lo guarda. Il Grande Fratello ha sei milioni di conniventi. Ma è ovvio che in un'epoca in cui tutto è supermercato se si mette un prodotto stupido titillante la non fatica in un supermercato mediatico la gente lo compera. È il produttore che deve smettere di pensare solo al prodotto, perché alla fine non paga: il consumatore alla fine non sente più i sapori, le differenze.
La prima edizione del Grande Fratello però l'abbiamo guardata tutti interrogandoci sui molteplici risvolti di quella trasmissione.
È vero. Ma già la seconda edizione è non solo ingiustificabile: è cinica e malvagia. Ma me la prendo anche con certe finte trasmissioni culturali, certe finte trasmissioni d'indagine, certe finte trasmissioni sui tribunali. Non esiste solo il becerume dei pomeriggi della domenica. C'è anche qualcosa di travestito da indagine, di travestito da giornalismo: chiedere al genitore di un bambino morto cosa prova in quel momento è pure volgarità e bestemmia.
E quando il teatro apre le porte ai personaggi televisivi?

Tanti prêt à porter della comicità dell'ultima ora in teatro non funzionano. I gestori di teatri mi confermano che quello che numericamente spopola in televisione non ha una tenuta teatrale paragonabile. La televisione no, ma il teatro alla fine è giustiziere. Rispetto ai gusti della televisione il teatro sceglie ancora ed è molto elitario.
Il teatro è un'isola felice?
Sì. Ma io non sono perché il teatro sia per pochi. Il teatro dev'essere per tanti. Però i tanti devono avere un'energia. Se non ce l'hanno e vengono a teatro solo per abbonamento, perché fa fico o perché si deve andarci sennò che figura, io preferisco che siano in pochi. Produrre prodotti che siano di massa a tutti i costi non lo giustifico. Si deve produrre arte, creatività, letteratura, drammaturgia: poi chi verrà verrà.
Torniamo a "Predisporsi al micidiale": lo spettacolo è stato definito "una trance comica" e "un laboratorio psicosensoriale": richiede molto impegno da parte del pubblico?
Se con impegno si intende cominciare a mettere in moto rotelle, a lubrificare muscoli della mascella, cerebrali e dell'anima, muscoli della sensazione ma anche del pensiero, ah sì: è molto impegnativo. Ma che cos'è oggi semplice e che cos'è impegnativo? Io credo che alcune cose sono vuote, altre sono piene. Dare calci a un pallone può essere pieno di divertimento, ma è impegnativo? Abbiamo fatto passare che è impegnativo diventare campioni del mondo di calcio, che è impegnativo condurre una trasmissione televisiva per tre anni, allora sicuramente andare a teatro è una fatica immane perché la gente non ha la pubblicità, deve stare ferma un'ora e mezza, non parla al telefono, non passeggia, non mangia. Però bisogna ristabilire il valore delle parole. Perché oggi si prende un buon imitatore e lo si trasforma in genio, si prende un interprete teatrale e lo si trasforma in autore, si prende un presentatore e diventa uno sciamano. Dovremmo riappropriarci dei termini. Gli imitatori sono dei virtuosi bravissimi, ma non possono essere dei geni creativi. Io ho sentito paragonare Walter Chiari a degli showmen radiofonici: quando smetteremo di dire queste bestemmie avremo capito qualcosa.
Lei come si definisce?
Le definizioni sono sempre tristi e allegre. Se posso dire qualche cosa: un pensatore di frodo, un attautore (se non fossi un autore proprio non mi interesserei di teatro), uno scrittore certamente.
"Predisporsi al micidiale" è sulle scene dalla fine di giugno del 2004: che evoluzione ha avuto lo spettacolo in questi anni?
Il primo anno era uno spettacolo, il secondo e il terzo un altro spettacolo. Adesso addirittura, seguendo un'idea del regista Riccardo Rodolfi, 15 minuti tutte le sere cambiano momento per momento. È lo spettacolo meno statico di tutti quelli che ho fatto fino adesso.
Lei ogni sera rimane quindi sorpreso da quel che fa.
Sì. È una cosa fondamentale che non riesco mai a far capire ai giornalisti. Io non improvviso sul pubblico, io improvviso su di me. Io non devo fare le caccole da attore dicendo "entri anche lei col suo fratello elefante" perché è grasso oppure "è caduta una quinta, oggi c'è vento". Quel tipo di improvvisazione non c'entra. Io ogni sera per un quarto d'ora faccio vedere live al pubblico che cosa penso in quel momento lì. Questa è improvvisazione su me stesso, non sul pubblico.
A vederla in scena con la rapidità con cui parla e la sua ricchezza di termini, di rimandi e di concetti vien da chiedersi se lei le parole le subisce.

È strano che noi accettiamo di un pittore lo sciamanico mescolare del colore nelle tele, ed è invece difficilissimo che accettiamo la parola detta come riuscita. Ma le parole, come diceva Manganelli, sono a prescindere dall'autore, da chi le dice, dal loro significato: hanno una loro vita. Io sono un Caronte che le porta da una parte all'altra, ma il lavoro lo fanno loro. Io con trasporto faccio un trasporto, che è quello di trascendere dal suono, dalle parole, dal significato e andare a cavalcare la loro forza, la loro luce, la loro energia. Questo è molto difficile da raccontare ma è per questo che io mi affatico il giusto. Sembra una cosa insormontabile, ma per chi si lascia portare, per chi non ha gabbie mentali e non ha paura dei termini e si sente un pensatore viene tutto molto più facile.
Trova differenze regionali nella percezione del suo spettacolo?
Tendenzialmente no. Però ad esempio la Svizzera ha una credibilità, una voglia di nuovo, un'attenzione che non trovo nelle Marche, dove c'è più un pecoreccio senso di "applaudiamo anche se non capiamo". Napoli è una città che ci ha messo 5 anni a entrare nel mio meccanismo: non sapevano di cosa stavo parlando. Bologna è una città attentissima che non mi regala nulla solo perché sono bolognese: mi aspetta sempre al varco e controlla ogni virgola che sposto. Roma è una città difficilissima, perché sono allenati zero alla diversità: è la Roma dei ministeri, delle trasmissioni televisive, del cinema facile e non si muove.
Eppure per il teatro oggi Roma è molto più interessante che Milano.
È vero. Però a Milano il pubblico ha una capacità di leggere il teatro che Roma non ha più. Roma è stanca, stanca, stanca: di anteprime di film, di ufficialità, di macchine blu.

Pubblicato il

26.01.2007 04:30
Gianfranco Helbling
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