René Burri e il mito Magnum

La celebre agenzia fotografica Magnum ha appena compiuto 70 anni. Fondata a New York il 17 aprile 1947, Magnum sta per qualità nel fotogiornalismo, grazie anche ai tre principi che stanno alla base della sua attività: l'agenzia è una cooperativa di fotografi, i negativi rimangono di proprietà dell'agenzia e questa vigila affinché i giornali evitino ogni manipolazione delle immagini. Lo zurighese René Burri si unì alla cooperativa nel 1959, dopo quattro anni di collaborazione. Ed è diventato con gli anni uno dei fotografi-simbolo dell'agenzia. Fosse soltanto per la sua celeberrima foto di un giovane Che Guevara che fuma il sigaro. Le guerre lo hanno portato a lavorare nella Germania e nell'Europa della ricostruzione, poi in Medio Oriente, in Vietnam, in Cambogia e in Libano. Ma ha anche ritratto alcuni di grandi del secolo scorso, da Picasso e Le Corbusier. Lo abbiamo incontrato per quella che, più che un'intervista, è diventata una lunga chiacchierata.

I tedeschi e noi

Subito dopo la guerra Robert Capa andò in Russia con John Steinbeck a documentare quanto di tremendo era accaduto. Certo qualcosa anche dietro la frontiera svizzera avevamo percepito, ma non immaginavamo la portata reale della tragedia. Abitavamo a Zurigo, ma mia mamma era di origine tedesca e aveva numerosi parenti in Germania, nella regione di Friborgo in Brisgovia. Avevo perfino uno zio che era caduto a Stalingrado. E quindi in casa un po' di simpatie per la Germania c'erano, come nel caso di Günther Grass. Ricordo di aver cominciato a capire cosa fosse accaduto il giorno della fine della guerra: avevo 13 anni, e in Bahnofstrasse vidi gettata a terra la croce uncinata del consolato tedesco. Poco più di un anno dopo ero al Bürkliplatz con in mano la macchina fotografica di mio padre e ripresi Winston Churchill. Che era a Zurigo per fare il suo famoso discorso sull'Europa. Furono le mie prime foto in assoluto. Ma non immaginavo affatto che quella potesse essere la mia strada. Dieci anni dopo andai in Germania a fare il mio primo grosso reportage. Ma non aveva nulla a che fare con tutto questo. Il fatto è che alla Magnum ero praticamente il solo a parlare tedesco. Così feci "Die Deutschen". Era un progetto nato sulla scia di "Les Américains", che la stessa casa editrice aveva affidato a Robert Frank.

Hans Finsler, il primo maestro
È la curiosità che mi ha spinto a fotografare. Volevo conoscere nuove persone e vedere cosa ci fosse oltre le montagne svizzere. Così nella primavera del 1950 mi iscrissi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo. Il maestro era Hans Finsler, che ci diede un'eccellente formazione tecnica. Ma io in realtà avrei voluto tutt'altro, volevo dedicarmi alle emozioni. Mi stancai in fretta delle uova e delle tazzine in controluce su cui Finsler ci faceva lavorare. Così andavo allo Schauspielhaus a fotografare gli attori. Mi sono comunque diplomato a pieni voti, anche se non frequentavo spesso le lezioni. Del resto quel diploma non l'ho mai dovuto mostrare a nessuno in tutta la mia vita.

La visita di Edward Steichen
Un giorno arrivò alla nostra scuola Edward Steichen. Si presentò con Robert Frank. Cercava foto per la mostra "Family of Man" che stava allestendo al Museum of Modern Art di New York. A noi studenti sembrava un po' troppo romantico. Finsler aveva preparato un tavolo con le nostre cose migliori, le solite tazze in controluce. Steichen le guardò, poi gli disse: «signor Finsler, abbiamo bisogno di fotografare l'uomo». Quello fu per me il semaforo verde: da allora cominciai a fotografare quel che mi interessava.

Alla Magnum a 22 anni
Dopo la scuola sono passato alla fotografia di reportage abbastanza in fretta, senza che nemmeno lo sapessi. Nel 1955 feci un servizio in una scuola per sordomuti nei dintorni di Zurigo, il mio primo grosso lavoro, e grazie a Werner Bischof lo sottoposi alla Magnum. Fu pubblicato su Life. E mi aprì le porte alla Magnum. Ma era anche l'inizio dei miei problemi: ogni storia nuova erano problemi nuovi e sconosciuti con cui mi dovevo confrontare, e spesso finivo per schiantarmi contro un muro. Come secondo servizio ad esempio me ne fu proposto uno sull'architettura di Le Corbusier, cosa che per la mia formazione mi conveniva abbastanza. Ma c'erano anche delle persone, e non sapevo come fotografarle, non sapevo come pormi di fronte a loro con la mia Leica: questo a scuola non ce l'avevano mai spiegato. Iniziai dunque nella fotografia life, avendo alla Magnum dei grandi esempi nel genere: Werner Bischof era già morto, ma c'erano Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. Ai quali mostrai le mie foto, un giorno che andai a Parigi. Ero appena all'inizio, ma subito David Saymour, cofondatore di Magnum con Capa, Cartier-Bresson e George Rodger, mi mandò in giro per il mondo a fare reportage. Dovetti imparare a nuotare da solo. Divenni membro di Magnum nel '59.

La lezione di Cartier-Bresson
Alla Magnum l'influenza più grande su di me la ebbe Cartier-Bresson. Fu una scuola splendida ma dura. Gli devo l'affinamento del senso di disciplina che in un certo modo già avevo. Ma lui mi ha davvero insegnato come si sfrutta appieno l'intero formato fotografico, usando gli obiettivi, avvicinandosi al soggetto ecc… Mi insegnò a comporre le immagini in modo tale che, quando i film venivano rispediti in agenzia, si potesse subito andare in stampa senza ulteriori aggiustamenti: perché le immagini erano già pienamente sfruttate e perfettamente composte. Cartier-Bresson in questo era inimitabile. Mi sono un po' liberato da questo insegnamento quando, lavorando in camera oscura, mi resi conto che non era necessario aggiustare le fotografie: capii che si deve anche poter andare oltre il bordo dell'immagine. La vita mi ha posto in un certo senso nella condizione di dover trovare una mia sintesi fra Finsler e Cartier-Bresson, per poi staccarmi da entrambi i maestri. È stata una corsa ad ostacoli, naturale e innaturale, incredibile e pazza com'era la vita all'epoca.

Una democrazia dittatoriale
Magnum era per me l'ideale per come lavoravano i fondatori. Era un gruppo di persone che non aveva un'ideologia, ma che pensava differentemente. Era una democrazia dittatoriale. Fu la Magnum che inventò il sistema dei reportage di 20-30 immagini di qualità accessibili a tutti i giornali, anche ai più piccoli. Chi però pubblicava una nostra storia doveva rispettare sia il formato che le didascalie delle foto. Oggi siamo in 40, ognuno con la sua indipendenza, che paghiamo anche finanziariamente. Pensavo che dopo la morte di Cartier-Bresson, nel 2004, tutto sarebbe finito. Ma sono arrivati molti giovani, tutto è cambiato e però funziona ancora.

La teoria del momento preciso
Cartier-Bresson teorizzava la foto fatta "al momento preciso". Ma il momento preciso è difficile da cogliere, è come un treno troppo veloce. Io facevo spesso delle sequenze, forse inconsciamente perché il mio obiettivo da giovane era fare del cinema. Del resto la mia macchina preferita, la Leica, è nata proprio per usare i film cinematografici da 35 mm.

L'importanza della composizione
Per me è sempre stato naturale vedere in una fotografia le linee compositive, la prospettiva. A scuola imparavamo a fare prima il disegno, poi a scattare la foto. È importante: in una foto composta bene si sente che c'è stata una selezione, una decisione. Il mio problema fu quello di inserirci le persone: all'inizio le volevo sempre fermare.

Fotografare i morti
Mi sono sempre rifiutato di fotografare i morti. Anche questo mi è venuto dalla vita. In Svizzera ero cresciuto in un clima zwingliano-calvinista, e durante la guerra mia mamma in casa aveva accolto diversi profughi, soprattutto polacchi ma anche tedeschi. Ero stato dunque fortemente condizionato alla sofferenza fin da bambino. Sul terreno dei miei reportage poi ero spesso confrontato a soggetti sui quali tutti i fotografi presenti si buttavano, e già questo mi andava poco. Ero per natura timido. E trovavo molto importante il comportamento che si tiene: non si deve essere aggressivi. Così quando c'erano centinaia di fotografi che si accanivano su uno stesso soggetto, io me ne andavo da un'altra parte. Questo mi permetteva di sviluppare un mio approccio, un mio punto di vista personale.

Occhi, cuore e piedi
Ho lavorato con tutti i formati, ma la Leica 35 mm è il mio terzo occhio. Il digitale è rapido, troppo rapido: manca il tempo per la riflessione. All'inizio della mia carriera dovevamo fare i conti con la censura, con i rullini che andavano persi nelle spedizioni ecc… Oggi la trasmissione e la pubblicazione sono quasi immediate. È brutto, non c'è più il tempo per prendere le distanze, per riflettere; e questo non deve autorizzare a fare qualsiasi cosa. Un buon fotografo deve sempre lavorare, oggi come allora, con gli occhi, con il cuore e con i piedi.

Il problema della verità
Ho fatto l'esperienza di molte guerre. Oggi si discute molto di giornalismo "embedded". Ma già molti miei amici lo facevano: le loro foto sembravano scattate a Hollywood. Certo oggi il problema della credibilità si pone in maniera ancora più importante. Credo che siamo tutti responsabili della perdita di credibilità della fotografia, non solo chi usa Photoshop. Ma non so se le foto di una volta fossero più vere. Forse non rappresentavano necessariamente la realtà. Allora come oggi però l'importante era ed è l'emozione che sanno cogliere e trasmettere di fronte ad un evento reale.

Dal fotogiornalismo all'arte
I reporter ambiscono sempre più a realizzare foto d'arte. Anch'io espongo nelle gallerie, hanno una funzione importante. Ma quando fotografavo non pensavo che poi le mie foto sarebbero state esposte. Erano destinate ai giornali. La Magnum è accusata di tendere sempre più verso la foto d'arte. Io non sono contro questa evoluzione, ma ricordo sempre che la forza e la magia di una fotografia stanno nella sua capacità di cogliere un momento che non tornerà mai più. D'altra parte oggi anche Le monde e la Neue Zürcher Zeitung pubblicano foto a colori. È un'evoluzione interessante, che però ci porta sempre più verso il fotogiornalismo "people". E allora capisco che ai fotografi interessino di più le gallerie e i musei.

Pubblicato il

27.04.2007 04:00
Gianfranco Helbling
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