Salari minimi, l’asticella europea

Due giorni dopo il lancio della nuova campagna dell'Unione sindacale svizzera per dei minimi salariali dignitosi, il sindacato Unia, insieme con la Confederazione europea dei sindacati (Ces) e con la centrale dei sindacati tedeschi (Dgb), ha tenuto la scorsa settimana un seminario di riflessione e di confronto sulla situazione salariale e contrattuale in Europa e in Svizzera. Ne è uscito un quadro piuttosto allarmante. Tra il 2002 e il 2007 il potere d'acquisto dei salari reali nei paesi che hanno adottato la moneta unica europea è diminuito dell'1,4 per cento. Nello stesso tempo la quota della massa salariale rispetto al prodotto interno lordo degli stessi paesi s'è ridotta del 6,35 per cento. Il corrispondente aumento della quota relativa al capitale, ovvero agli utili delle imprese, non ha però prodotto un incremento degli investimenti. Al contrario, l'Europa è l'unico continente che registra una diminuzione degli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, per cui il suo tasso di crescita rimane inferiore a quello del Giappone e degli Usa.

Walter Cerfeda, segretario della Ces, ha attribuito questo fenomeno alle scelte di politica economica e monetaria che vengono compiute dall'Unione europea (Ue) e dalla Banca centrale europea (Bce): «Da anni i responsabili fanno una politica contraria alla crescita dei salari. È tempo che con la nostra azione cerchiamo di rompere questa pericolosa tendenza», ha affermato Cerfeda. Da un lato, aumentano le rendite finanziarie; dall'altro, cresce la tendenza alla precarizzazione del mercato del lavoro: nel 2002 i lavoratori nell'Ue con contratti a tempo determinato o parziale erano 63 milioni; nel 2007 erano diventati 108 milioni. Un deterioramento generalizzato del mercato del lavoro, dove ci sono sempre più lavoratori interinali, lavoratori in nero e falsi lavoratori dipendenti.
Questa situazione ha pesanti conseguenze salariali: 30 milioni di "working poor" (lavoratori poveri) guadagnano salari che sono appena il 30-40 per cento della media degli stipendi nei paesi dell'Ue. «È un dumping sociale infinito che spinge verso salari di povertà», ha commentato Cerfeda. Per reagire, la Ces e molti sindacati nazionali hanno avviato campagne per ottenere per legge e far rispettare i minimi salariali. Questi ci sono solo in 20 paesi sui 27 dell'Ue, anche se nel frattempo l'Austria ha introdotto un salario minimo di mille euro e in Germania il Dgb sta cercando di ottenere il salario minimo garantito di 7.50 euro all'ora. Ma non è facile. In Italia, per esempio, esiste un salario minimo formale (contrattuale), ed esiste un salario minimo effettivo, che è quello determinato dal lavoro nero.
Tuttavia, «il salario minimo è solo una parte della politica salariale», ha detto Cerfeda. Certo, è una parte importante, specialmente nelle regioni più povere. E sia per motivi di solidarietà, sia per evitare il dumping sociale, la battaglia per il salario minimo è pienamente sostenuta dai sindacati europei. «Ma la campagna della Ces ha come obiettivo l'aumento del potere d'acquisto dei salari» ha continuato Cerfeda. «Sulla base di una nostra indicazione che diamo a tutti i sindacati dei 27 paesi europei, noi chiediamo un aumento del potere d'acquisto dei salari che tenga conto dell'inflazione e di una quota della produttività».
E perché mai i sindacati dovrebbero preoccuparsi dell'aumento della produttività? «Noi siamo interessati all'aumento della produttività in Europa, perché questo può migliorare la competitività europea», è la spiegazione del dirigente della Ces. Negli ultimi cinque anni l'Europa è stata la più lenta tra le economie avanzate (non considerando quella cinese e quella indiana, che hanno un tasso d'innovazione tecnologica abbastanza basso). «Ma ciò che rende differente la produttività europea rispetto a quella americana e giapponese, è che noi abbiamo una produttività da lavoro più alta e una produttività da capitale, cioè da innovazione tecnologica, più bassa» ha spiegato Cerfeda.
Ora, se si pensa che l'85 per cento del Pil dell'Ue dipende dalla domanda interna, e solo il 15 per cento dalle esportazioni, si capisce quanto peso abbia la questione salariale sull'economia dell'intero continente. E invece, la Banca centrale europea tende, per timore dell'inflazione, a frenare la dinamica salariale. Ma avere soltanto lavoro precario e salari in discesa significa avere lavoro di bassa qualità e una bassa produttività. Mentre, secondo Walter Cerfeda, «il lavoro produttivo è dato dalla competenza professionale, quindi dagli investimenti nella qualità del lavoro capace d'introdurre qualità nei prodotti». La moderazione salariale, quando si colloca sotto la produttività, rischia non soltanto di avere una conseguenza sociale, cioè povertà e precarizzazione, ma anche una conseguenza  economica: l'Europa viene spinta «verso una situazione di stagnazione, o di deflazione, che è il rischio più grande che corriamo in questo momento. Con l'inflazione al 3,6 per cento e una crescita allo 0,8, questo significa portare l'Europa alla stagflazione».
«Per questo insistiamo affinché la politica salariale sia uno strumento della crescita economica», dice Cerfeda. I sindacati europei vogliono evitare che il blocco dei salari diventi un forte rischio per l'economia; e perciò la Ces chiede all'Europa di riflettere sulla sua politica di crescita economica. È per questo motivo che, a coronamento delle campagne nazionali per i minimi salariali, la Ces ha già in programma per l'8 e 9 ottobre una grande conferenza nella quale cercherà il confronto con il commissario europeo per gli affari economici e monetari, Joaquín Almunia, e con il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. «Ci sono ragioni forti, sociali ed economiche, che ci chiedono un'iniziativa forte a livello europeo. L'Europa del liberalismo e del mercato vince, ma se questa vittoria non porta né alla crescita economica, né alla coesione sociale, è una crisi dell'Europa che noi vogliamo evitare».

"Ci vuole un'azione congiunta"

Vasco Pedrina si è detto che occorre affrontare dal profilo della politica economica e monetaria le questioni della produttività e della crescita del potere d'acquisto dei salari. Significa che in futuro l'iniziativa sindacale punterà più sull'attività di lobbyng che sulla mobilitazione dei lavoratori?
Una via non esclude l'altra. E ambedue non vanno contrapposte, se si vuole arrivare all'obiettivo di una ripresa salariale e di un'inversione di tendenza rispetto alla quota salariale nel prodotto interno lordo. Dobbiamo constatare  che effettivamente la politica gioca un ruolo sempre più condizionante sui salari. In passato, con la gestione precedente della Banca centrale europea, non c'era un condizionamento così grande come da quando c'è Trichet alla presidenza della Bce. Quindi, è necessario per i sindacati alzare il tiro. E anche nei confronti della Bce si pone la questione della mobilitazione, perché Trichet – col quale si è parlato, è stato invitato addirittura al congresso di Siviglia l'anno scorso, ed è anche venuto – non ha cambiato di una virgola il suo orientamento. E questo ha portato la Ces anche ad organizzare una grande manifestazione europea il 5 aprile scorso a Lubiana con 35 mila lavoratori.
Questa linea di condotta vale anche nei confronti della Banca nazionale svizzera?
La Bns ha fatto in questi ultimi anni una politica monetaria in generale più ragionevole rispetto a quella della Bce. E il presidente della Bns è più riservato rispetto a Trichet: non è che s'immischia ogni sei mesi nella politica salariale. Gli è già successo di farlo, ma abbiamo subito reagito. Però non ha una strategia di condizionamento della politica salariale così sistematica e penetrante, come  quella di Trichet e di certi ministri delle finanze nazionali.
Sui minimi salariali è stato detto che in Svizzera la via contrattuale rimane prioritaria rispetto alla via legale. Significa che c'è contraddizione con il resto dei sindacati europei?
Il dibattito in Europa è, in fondo, quello tra via legale e via contrattuale, o una combinazione tra le due. I francesi hanno scelto da lungo tempo di dare un peso importante alla via legale. Mentre per gli italiani, i nordici e, in passato, anche per i tedeschi, era tabù passare attraverso la legislazione: hanno sempre messo al centro la politica contrattuale. Questo orientamento è cambiato in Germania negli ultimi anni e in Inghilterra dal 1999. E parzialmente è cambiato anche in Austria, dove, per evitare un intervento diretto dello Stato, i partner sociali si sono messi d'accordo d'introdurre in tutti i contratti collettivi un salario minimo di novecento/mille euro fino al 2009. In Svizzera abbiamo sempre dato la priorità alla via contrattuale. Però con le misure d'accompagnamento alla libera circolazione delle persone siamo riusciti a introdurre la possibilità d'imporre per via di legge dei minimi salariali nei settori dove la situazione è molto precaria, dove non ci sono associazioni padronali, dove il sindacato è debole.
Ma, viste le diversità di approccio al problema, è possibile coordinare un'azione sindacale a livello europeo? Non è troppo complesso e difficile?
Fino adesso questa complessità ha portato a non condurre di fatto alcuna campagna concertata europea sui salari. Ora, per la prima volta c'è un salto di qualità: il congresso della Ces, su proposta degli svizzeri e dei tedeschi, ha lanciato una campagna concertata. Il primo passo concreto di questa campagna è stata la manifestazione europea del 5 aprile a Lubiana. Ma insieme si possono condurre in parallelo delle campagne nei singoli paesi, dove siamo confrontati a problemi simili. E cioè: negli ultimi anni, malgrado la crescita economica, il potere d'acquisto è rimasto fermo quando non è sceso; la quota del salario nel Pil è diminuita; il divario tra reddito dei manager e salari medio-bassi cresce; l'uguaglianza tra donne e uomini non si realizza. L'altro problema difficile da risolvere è quello di trovare per queste campagne criteri comuni dal punto di vista dei contenuti: qui siamo ancora in una fase di discussione ed esistono ancora delle divergenze.
Quali iniziative avete in programma e quanto durerà questa campagna europea?
Sarà sicuramente una una campagna pluriennale. In programma abbiamo l'incontro ad alto livello, all'inizio di ottobre, con la Bce e con la Commissione europea. Ma dobbiamo anche discutere sull'idea di prendere un'iniziativa di mobilitazione per quest'autunno, che potrebbe consistere in una giornata d'azione europea coordinata in tutti i paesi, eventualmente con uno sciopero simbolico europeo, magari di soli 10-15 minuti, ma che dia un'indicazione della volontà delle classi operaie europee di vedere le cose cambiare.

Buste paga a confronto

In fatto di salari in Europa esistono grandi differenze. Un confronto puntuale può essere fatto considerando in particolare le retribuzioni minime garantite per legge in 20 dei 27 paesi dell'Ue. Tra i salari più bassi, pagati in Bulgaria, e quelli più alti, in Lussemburgo, c'è un abisso misurabile nel rapporto di 1 a 14. Tuttavia, se si tiene conto delle differenze in fatto di prezzi e di potere d'acquisto, tale rapporto si riduce a 1 a 7. Resta il fatto che nei paesi dell'Europa centrale ed orientale i minimi salariali sono drammaticamente bassi, anche se il loro tasso di crescita è arrivato quest'anno fino al 33 per cento. Quest'apparente contraddizione si spiega con le cifre assolute.
Riducendo tutto alla paga media oraria, e tenendo conto della normale settimana lavorativa (cioè senza straordinari), il salario minimo è di 9,08 euro in Lussemburgo, 8,65 in Irlanda, 8,44 in Francia, 8,19 in Olanda, 8,15 in Belgio, 7,50 in Germania (richiesta sindacale) e 7,39 in Gran Bretagna. Segue una pattuglia di minimi salariali medio-bassi: 3,80 euro in Grecia, 3,59 in Spagna, 3,55 a Malta, 3,12 in Slovenia, 2,55 in Portogallo. Infine, i salari bassi e bassissimi: 1,87 in Repubblica Ceca, 1,81 in Polonia, 1,61 in Estonia, 1,57 in Ungheria, 1,46 in Slovacchia,  1,34 in Lituania e in Lettonia, 0,80 in Romania e 0,65 in Bulgaria.
Da notare che l'anno scorso in Gran Bretagna il salario orario minimo, prima che la sterlina (seguendo il dollaro) si svalutasse fortemente, era superiore agli 8 euro. Tra i paesi che non hanno minimi salariali fissati per legge, l'Italia, dove il minimo effettivo è dettato dal lavoro nero, e l'Austria, dove i partner sociali hanno concordato d'introdurre quest'anno in tutti i settori un salario minimo mensile di mille euro per 14 mensilità.
Una proposta dei sindacati svizzeri alla Confederazione europea dei sindacati è quella di darsi l'obiettivo che tutti i paesi europei introducano a breve termine, per legge o per via contrattuale, un salario minimo che corrisponda alla rispettiva media salariale nazionale. In un secondo momento tale minimo potrebbe essere portato al 60 per cento della media nazionale dei salari. 

Pubblicato il

25.04.2008 01:00
Silvano De Pietro
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