"Sarà una pietra miliare"

Storico del movimento sociale, docente all’Università di Berna e consulente scientifico della redazione del Dizionario storico svizzero, il basilese Bernard Degen è convinto: se il sì prevarrà il 25 settembre nella votazione sull’allargamento ai nuovi paesi membri dell’Ue della libera circolazione delle persone si tratterà di una pietra miliare per il movimento operaio svizzero. Perché, dice Degen, si aumenterebbero così le facoltà di controllo dello Stato sulle condizioni di lavoro, permettendo per la prima volta nella nostra storia una verifica, per quanto limitata, delle retribuzioni. In questa intervista spiega la sua posizione. Bernard Degen, in Svizzera la lotta per la difesa dei diritti dei salariati s’è sempre scontrata con un diritto del lavoro profondamente impregnato di ideologia liberale. Da quando lo Stato ha cominciato a proteggere seriamente i lavoratori e come s’è sviluppata questa tutela? Il primo passo importante è stato la Legge sulle fabbriche del 1877, quando per la prima volta ci si è immischiati negli affari interni delle imprese. Il punto più importante di quella regolamentazione, accanto a norme sulla salute e l’igiene, concerneva l’orario di lavoro, che fu limitato a 11 ore al giorno. Quella legge però non si applicava tra l’altro né al lavoro a domicilio, né all’artigianato. Qui tutto era lasciato alla libera contrattazione fra datore di lavoro e lavoratore. Che controlli svolgeva lo Stato sulle condizioni di lavoro? In linea di principio c’erano soltanto i controlli previsti dalla Legge sulle fabbriche, la cui applicazione era verificata dagli ispettori delle fabbriche. Ma questi ispettori erano pochi, per cui non potevano controllare che la legge venisse effettivamente rispettata ovunque. Successivamente, nel 1964, è entrata in vigore la Legge sul lavoro. Gli ispettori creati in base a questa legge, gli ispettori del lavoro, dovevano però limitarsi a sorvegliare la corretta applicazione di questa legge e della Legge sulle fabbriche, accontentandosi in sostanza di verificare il rispetto degli orari di lavoro e delle condizioni igieniche. Non era invece compito degli ispettori controllare i salari in quanto questi non erano fissati per legge. Lei ha definito l’eventuale approvazione dei Bilaterali bis il prossimo 25 settembre come una pietra miliare nella storia del diritto del lavoro svizzero. Perché? Con riferimento ai controlli il pacchetto sottoposto a votazione il 25 settembre contiene effettivamente qualcosa di nuovo. Già con le prime misure d’accompagnamento è stato introdotto nel Codice delle obbligazioni un articolo secondo cui in caso di abuso la Commissione tripartita può imporre un contratto normale di lavoro, anche se soltanto per un periodo di tempo limitato, in cui anche il salario minimo sia fissato. Con le seconde misure d’accompagnamento, se venissero approvate, per la prima volta al di fuori dei contratti collettivi ci sarebbe la possibilità di fare dei controlli sui salari attraverso degli ispettori legittimati dallo Stato. Sarebbe dunque possibile fissare dei salari minimi e verificarne il rispetto attraverso degli ispettori. Anche se questa possibilità riguarda soltanto salari in settori in cui si siano verificati abusi, e anche se in questa procedura attraverso le Commissioni tripartite sono ancora direttamente coinvolti i partner sociali oltre allo Stato, si tratta indubbiamente di uno strappo importante nella tradizione molto liberale del diritto del lavoro svizzero, in quanto fissando un salario e controllandone il rispetto si interviene in una questione fondamentale che finora era stata lasciata esclusivamente alla libera contrattazione fra datore di lavoro e lavoratore. Ma importante è anche il fatto che gli ispettori siano pagati dallo Stato: questo conferisce loro piena legittimità. Un sì il 25 settembre sarà una pietra miliare però solo a condizione che i sindacati sappiano esercitare la necessaria pressione perché trovino reale applicazione le misure di accompagnamento. Quale effetto per i sindacati avrebbe un sì il 25 settembre? Non verrebbero direttamente rafforzati. I sindacati sanno che dei lavoratori discriminati dal punto di vista legale premono sulle condizioni di salario provocando dumping molto di più che dei lavoratori ai quali sono riconosciuti pieni diritti. L’esempio più evidente nel passato era quello degli stagionali: erano loro ad avere meno diritti e nel contempo a percepire i salari più bassi. Ritengo che questo sia uno dei motivi per cui i sindacati appoggiano con così forte determinazione l’allargamento a Est degli accordi bilaterali: vogliono che tutti i lavoratori abbiano pieni diritti e possano difendersi. Qual è il bilancio per i sindacati del no allo Spazio economico europeo del ’92? I sindacati non sono stati direttamente toccati da quel no. Certamente però ne hanno subito indirettamente le conseguenze in quanto quel no ha dato nuovo vigore e slancio alle forze neoconservatrici in Svizzera. Questo ha reso più difficili per i sindacati le trattative salariali, ma ha anche influito poi direttamente sulla legislazione sul lavoro. Negli anni ’60 i sindacati non erano così chiaramente per un’apertura del mercato svizzero del lavoro. Cos’è accaduto nel frattempo? I sindacati si sono aperti effettivamente molto tardi e con molte esitazioni. Questo successivamente ha creato loro molti problemi con i loro stessi associati, che non erano abituati all’apertura. È sul finire degli anni ’60 che l’attitudine dei sindacati è cambiata, in particolare dei vertici, ma c’è voluto molto tempo perché questo si riscontrasse anche nella base. Uno dei motivi era che sempre più stranieri lavoravano in Svizzera, e se il sindacato continuava a lottare contro di loro non li poteva organizzare. Ma tanti erano gli stranieri impiegati in Svizzera che i sindacati li dovevano necessariamente organizzare, altrimenti non sarebbero stati rappresentativi. Basti pensare al settore dell’edilizia: una politica di ostilità nei confronti degli stranieri avrebbe chiuso le porte al sindacato, era necessario aprirsi per poter organizzare i lavoratori. Quale fu il punto di svolta? Le iniziative di James Schwarzenbach? Sulle iniziative Schwarzenbach i sindacati si erano già tutti riconosciuti dietro al no. Ma con questa parola d’ordine non riuscirono a convincere la maggioranza dei loro membri. Un caso tipico in questo senso fu quello della Flmo. Oggi ho l’impressione che su questo problema si sia ricostituita un’unità di vedute fra vertici e base sindacali. Il problema che rimane è il pericolo del dumping salariale: il voto della base sindacale il 25 settembre dipenderà da quanto i membri del sindacato sono convinti del fatto che i controlli funzioneranno. Se credono che i controlli funzioneranno voteranno sì, altrimenti no. Professor Bernard Degen, il processo di apertura delle frontiere è una particolarità di questo periodo storico o c’è stata una fase nella storia recente svizzera in cui c’era un’effettiva libera circolazione delle persone? Prima della prima guerra mondiale le frontiere erano realmente aperte. Ad esempio nella regione di Basilea la gente andava e veniva dall’Alsazia o dal sud della Germania senza problemi e senza bisogno di autorizzazioni per lavorare. Addirittura il tram attraversava il confine senza controlli di frontiera. Nei primi anni del ventesimo secolo in Svizzera c’erano dunque già molti lavoratori stranieri, soprattutto tedeschi ma anche italiani, e sul mercato del lavoro avevano gli stessi diritti degli svizzeri. Anche nei sindacati avevano pari diritti e anzi erano non di rado ancor più rappresentati che non i lavoratori indigeni. Inoltre se un lavoratore di Zurigo membro di un sindacato svizzero andava a lavorare a Colonia bastava che si annunciasse al sindacato tedesco perché potesse godere gli stessi diritti di un sindacalizzato tedesco. In questo senso i sindacati svizzeri erano molto internazionali. Cos’è successo dopo il 1914? Perché si cominciò a discriminare i lavoratori a dipendenza del loro paese d’origine? La prima guerra mondiale creò una frattura profonda. Le frontiere furono chiuse nell’agosto del ’14 con l’esplosione della guerra, e successivamente non furono mai più veramente riaperte come lo furono in quegli anni. La guerra poi portò in ogni Stato alla nascita di correnti nazionaliste che impedirono, alla fine della guerra, di riportare le cose agli anni precedenti il conflitto. Le tendenze isolazioniste ebbero buon gioco, tanto che già in quel periodo furono inoltrate le prime iniziative contro l’inforestieramento. Esse fecero leva sulla paura che arrivassero in Svizzera dei moti rivoluzionari come li avevano vissuti la Germania e l’Austria subito dopo la guerra. Non a caso la Svizzera mantenne truppe alle frontiere fino al 1920 per impedire l’entrata di sovversivi. È in questo clima che fu elaborata la Legge sugli stranieri nel corso degli anni ’20, la quale poi determinò tutta la politica migratoria svizzera. Si trattava di una legge fondamentalmente di polizia, che però all’atto pratico fu usata soprattutto per regolare il mercato del lavoro, non da ultimo perché, non appena entrata in vigore, vi fu subito la crisi economica degli anni ’30. Prima del 1914 allora si viveva un periodo idilliaco? Era idilliaco nel senso che si poteva senza problemi passare da uno Stato all’altro. Ma non si può tacere che ci furono anche conflitti culturali. E qui determinante era la provenienza dei lavoratori stranieri: se a Basilea un alsaziano non aveva problemi e passava inosservato, ben diversa era la situazione per un italiano. Le comunità italiane al nord delle Alpi in realtà erano già allora fortemente isolate.

Pubblicato il

09.09.2005 02:00
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